IL DIARIO – seconda puntata

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  –     di Elvio Accardo   – legge il diario scaled IL DIARIO – seconda puntata

LEGGI LA PUNTATA PRECEDENTE:

prima puntata

         Il telefono squilla, mi alzo e mi stringo nel plaid, il freddo può talvolta essere dimenticato se sei preso da altro, ma poi ritorna violento con brividi e bruciore di gola.

“Pronto chi è?” “Ciao Filippo, ti ho accolto con tutta l’acqua che avevo a disposizione, sei contento? ne ho ancora, ma la conservo per stasera”. Era Graziano, il mio caro amico d’infanzia, proprietario del Bar “Nero caffè” in piazza Quattro Orologi. “Ciao Graziano, non me ne parlare, l’ho presa tutta, è saltata pure la caldaia, e sto senza doccia al fresco senza riscaldamento, come ti passa?” lascia perdere il riscaldamento, oggi è il mio onomastico, ti aspetto stasera alle nove, beviamo qualcosa dopo la chiusura, ti potrai riscaldare per benino,” “Chi viene?”    “I soliti, siamo sempre tra di noi, a sì, viene anche il professore Lanza, il primario di pneumologia, ospite d’onore”, “Chi Corrado Lanza,” “Sì”. “Allora non mancherò, Lanza mi ha cresimato, è il mio compare, lo sento a telefono spesso, ma non ci vediamo da parecchio, prepara lo sciroppo” concluse con un “T’aspetto alle nove”.

Se fossi stato un fumatore, era quello il momento di accendere una sigaretta, ma non lo ero, mi risedetti sul divano a sorseggiare l’anice rimasto nella tazza, volevo ritardare ancora un po’ l’apertura del baule, la telefonata di Graziano non mi aveva distratto dalla voglia pungente di sollevare il coperchio. Versai con calma altro anice nella tazza e lentamente sollevai il coperchio.

Un velo bianco di tulle copriva il contenuto, e sul quel velo un foglio un po’ ingiallito piegato in due, lo presi e cominciai a leggere.

Convento delle suore Cappuccinelle di Forio d’Ischia, sotto il comando di Madre Badessa Suor Teresa Dimignano.

Lista delli panna per il corredo di sposa della signorina Mafalda Guevara Migliore figlia di sua eccellenza don Salvatore Pietro Guevara Migliore.

Cassa N° 3.

N° 4 mesali di lino ricamati, con aucielli cantatori e fontanella in mezzo. Uno con roselline di seta e melagrana in centro.

N° sei panna di lenzola ricamate con scenette alla franzese nelli spicoli.

N° sei panna di lenzola ricamate con angioli e criature amorose del cielo.

N° sei panna di lenzola di lino di Olanda, ricamate alla moda di fiori e piante torno torno.

N° otto federette apparate con ricami di scenette alla franzese, e grappoli di fiori.

N° otto federette apparate con ricami di aucielli cantatori.

N° otto fedrerette ricamate con angioli e criature amorose del cielo.

N° otto tovaglie di lino d ‘Olanda per asciugamani ricamate con fiori e iniziali apparate.

N° otto cammise per la notte con orletti fatti con uncinetto.

Le ventiquattro lenzola doppie ricamate a mano, di puro lino d’Olanda, più ventiquattro semplici, più trentasei coppie dì federette, più dodice tovaglie di organza, più sei per tutti i giorni, stanno nella cassa N° due.

Parte personale: biancheria, camicie di seta, di tela d’Olanda, mantelle, farzoletti , scolle ecc . ecc.stanno nella cassa N° uno.

Questa cassa N° tre, contiene solamente i panna per la notte e per i giorni di festa.

Visto e controllato da Suor Maria della Consolata capa ricamatrice Convento delle Cappuccinelle di Forio d’Ischia. 8 giugno 1917.

Avevo davanti ai miei occhi una delle casse che contenevano il corredo nuziale di Mafalda, una giovane donna alla vigilia delle sue nozze. Quanta tenerezza mi faceva quel baule, pieno di promesse naufragate chissà perché. Tolsi il tulle con delicatezza e comparvero quelle “lenzola” descritte sull’elenco, tutto perfettamente ripiegato, solo il bianco superficiale del tessuto un po’ ingiallito, e qua e là puntini di ruggine. sotto il gran coperchio una fodera beige che rivestiva tutto l’interno del baule con su stampigliato infinite volte: Luis Vitton.

Negli angoli tra le pareti del baule, delle fettucce celesti che scendevano fin sul fondo, a queste fettucce erano appesi dei sacchetti, fu la prima cosa che presi ma non riuscii a tirarlo su, erano tutti sacchetti che avevano contenuto dei fiorellini di lavanda, ancora un lieve e vago profumo ne scaturì quando affondai la mano per recuperarli, nel ritornare su, la mia mano strisciò su qualcosa di rigido che si trovava in fondo tra le lenzuola, pensai a un libro, lo presi e lo sfilai piano  dal suo antico giaciglio sotto la pila delle lenzuola, non era un libro, era un quaderno con le copertine nere un po’ strappate e molto gualcite, irrigidito da tanti anni di pressione delle lenzuola.

Il mio cuore si scatenò, l’emozione mi vinse, sedetti sul divano di peso, e bevvi l’anice rimasto nella tazza in un sol sorso. Meritavo un caffè bollente, e un placarsi emotivo che stentavo a recuperare, volevo solo calmare i battiti e smontare il sorriso ebete che si era stampato sulla mia faccia. Forse non sono un potente reattivo impulsivo, forse mi piace di più godermi fredde le cose della mia vita, fatto sta che vivere sempre da solo, mi induce a non bruciare velocemente quanto mi capita, ma godermele un po’ alla volta, senza fretta, come fa la lenta risacca del mare sulla riva d’estate, in fondo giova anche nel mio lavoro a bordo di un aereo.

Faccio il caffè, rifletto su tutto quello che ho trovato, cerco di mettere insieme una figura di donna mai conosciuta, e la vedo bella, elegante, una donna di classe che esprime fascino e che mi fa tanta tenerezza. Il caffè lo bevo sul divano seduto tra la cloche e il quaderno.

Cerco di aprire il quaderno con attenzione, infatti mi accorgo che è rigido, come una tavoletta di legno, le pagine non si aprono, provo ad inumidire le mie dita per sfogliarlo, i fogli hanno perso la loro consistenza, sembrano carta velina pronta a strapparsi. La copertina nera si apre, sul primo foglio appare un nome:

Eduardo del Balzo, Liceo classico Vittorio Emanuele II   classe III C. Napoli

I fogli del quaderno sembravano incollati tra loro, il rischio di strapparli era alto, e io non volevo. Mi accorsi che le prime pagine erano state strappate e cominciava così il capoverso:

…per questo ringrazio il cielo di essere stato rimandato in inglese è stata per me una grande fortuna, ho conosciuto Mafalda.

– 4 luglio 1917. La pensione Florian, sta proprio a Piazza Maltese, a poche passi dal palazzo di Mafalda, lei è la mia professoressa di inglese, oggi mi ha dato un bacio sulla guancia, forse perché le ho portato una rosa tea quando sono arrivato. Ho lasciato la rosa nell’ingresso e sono andato a salutare prima don Salvatore, e la moglie, la signora Porzia poi ho ripreso la rosa e sono andato nel salottino dove Mafalda mi aspettava, le ho dato la rosa e mi ha detto grazie, sei molto gentile. Mafalda è molto bella, io che sono grande e grosso mi sono sempre sentito un po’ a disagio con le signorine minute e delicate come è lei, ma quel bacio fresco e profumato, mi ha trasformato, grazie Dio.

La mia saliva sulle dita aiuta molto a girare i fogli. Vado avanti senza staccare gli occhi.

– 7 luglio 1917, dopo la lezione, ho accompagnato Mafalda a prendere un sorbetto, con noi è venuta Lucietta, la figlia di Angiolina, la donna di famiglia di casa Guevara, è molto riservata, e dopo che le ho spiegato che il papà della signorina Mafalda e mio padre sono colleghi essendo ambedue giudici in corte d’assise al Tribunale di Napoli, si è allontanata per comprare i lupini e semi di zucca infornati, Lucietta ha tredici anni, l’hanno mandata con noi per la gente. Sotto il tavolino, all’ombra del tendone della drogheria, ho preso la mano di Mafalda, mi ha stretto forte, tremava, poi ha detto: “Non lasciarmi.”  È tornata Lucietta e siamo rimasti a mangiare il sorbetto. Che delizia nel mio cuore, Mafalda prova le stesse meravigliose cose che io provo per lei.

Mi commuovono queste poche righe, un amore nato cosi, improvvisamente, in un’epoca piena di tabù, di convenzioni e formalismi, mi sembrò una rivoluzione. Tirai fuori dalla cappelliera la cloche della mia prozia e ne sentii l’odore interno, volevo avvicinarmi a lei il più possibile, sentii un odore di pesca, un profumo lieve, una sfumatura quasi impercettibile, che colsi fiutando come avrebbe fatto un cane, era   l’ultimo intimo odore di Mafalda.

– 12 luglio 1917. Mafalda è la cosa più bella che mi sia mai capitata, e non credo che nella mia vita me ne capiterà un’altra. Le ho dichiarato il mio amore, e lei si è commossa, mi ha detto che aveva aspettato questo momento sin da quando mi ha visto la prima volta in casa sua. Ci incontriamo nella chiesa di Santa Maria di Portosalvo, giù al porto, dove va a fare lezione di inglese alle signorine dell’associazione “Fronte G. Moscati”. Sulla via del ritorno ci siamo abbracciati e baciati con passione dietro al chiosco delle granite. Siamo stati molto attenti, nessuno ci ha visto.

La difficoltà di aprire le pagine è molto presente, posso farlo grazie alla saliva che la mia lingua appoggia al mio indice, e devo strusciarlo sul bordo del foglio per riuscire a girarla. Le pagine si strappano, restano incollate tra loro.

22 luglio 1917. Oggi sono andato alla lezione di inglese a casa di Mafalda, lei non c’è. Angiolina mi ha fatto entrare nel salottino, dicendo che sarebbe arrivata tra poco. Mi sono seduto e ho pensato al mio esame di licenza, ho pensato anche alla possibile chiamata al fronte, ma io mi iscrivo subito dopo l’esame di riparazione alla facoltà di giurisprudenza, cosi come vuole mio padre, per fare la carriera di giudice. Ho visto nei mesi passati nel porto di Napoli partire navi cariche di motocarri, muli, cannoni e truppe per il fronte, mi sono entusiasmato anch’io, mi è passato per la testa di arruolarmi, il nostro re Vittorio Emanuele III di Savoia, si prodiga in tutti i modi per l’Italia, anche io avevo in mente di partecipare. Adesso che ho conosciuto Mafalda, nulla mi sembra così importante, ho da credere che esiste un futuro, un avvenire che verrà, ed io voglio starci, voglio starci con Mafalda, vivere con lei tutta la vita, avere dei figli e difenderli dalle avversità. Mentre facevo questi pensieri, è arrivata Rosolina, la sorella minore di Mafalda mi ha detto di seguirla. Siamo andati sul terrazzo, e il signor Salvatore, papà di Mafalda, era seduto all’ombra di un tendone ad un tavolo con la signora Porzia sua moglie. Mi ha detto di sedermi e di avere un po’ di pazienza, perché Mafalda era andata dalla modista, per misurare un vestito. Io ho salutato rispettosamente e mi sono…

Qui ho girato la pagina e il foglio si è strappato, con attenzione e saliva sono riuscito ad andare avanti.

…seduto, don Salvatore ha chiesto a Rosolina di versare il caffè, e poi ha detto: “come vanno le lezioni d’inglese con Mafalda?, avevo avuto giovamento? sapevo che era laureata da sei  anni e che era stata scelta dalla università di Napoli per insegnare l’inglese alle signorine del “Fronte Giuseppe Moscati” le quali  curano i rapporti  con l’Azione Cattolica degli Stati Uniti d’America?”.

Ho risposto sempre sì e che lodavo quello che stava facendo per me, poi mi ha chiesto della slogatura al piede di mio padre, che ha ben superato e che a settembre riprenderà il suo ufficio. Mi ha anche riferito che avrebbe invitato mio padre e mia madre al matrimonio di Mafalda con il comandante Mattia Serre di Bagnara, consulente navale al ministero della guerra a Roma. Mi si è gelato il sangue, ho detto “grazie” balbettando, ma il mio cuore si è fermato, non ascoltavo più quando ha detto che avevo un fisico di un atleta, ero alto e prestante, e se avessi voluto, lui avrebbe potuto farmi entrare alla scuola nazionale italiana per palombari a Napoli, una scuola prestigiosa, poi mi avvisa che la carrozzella con Mafalda è arrivata e che potevo scendere. Nel salottino ho riferito a Mafalda quanto mi aveva detto il padre, a proposito del suo matrimonio, e le ho chiesto la verità. Ero addolorato e forse l’ho trattata male, lei ha pianto roventi lacrime di sconforto, mi ha rivelato che non sposerà mai un vecchio, un uomo che ha incontrato solo poche volte, uno sconosciuto che non ama, non prova nulla per lui, solo ripulsa e indifferenza. Con me invece è stato come un miracolo che Nostro Signore ha voluto fare accogliendo le sue preghiere, le sono entrato nel cuore immediatamente, come se io fossi stato sempre atteso, nel suo sangue scorreva il mio sangue, e nulla al mondo le farà cambiare idea.  Ho pianto anch’io alle sue parole disperate mentre ci baciavamo con furore e desiderio.

Sono talmente rapito dalle parole di Eduardo che nella fretta di girare la pagina, ho strappato un angolo inumidito dalla mia saliva.

I miei pensieri corrono in ogni direzione, in questo tormentato rapporto d’amore, la mia prozia mi appare sempre più un’eroina, coraggiosa e decisa contro una mentalità chiusa di “padre padrone” che segna il destino di ogni componente della famiglia. Dunque deduco che il mio bisnonno aveva stabilito quale dovesse essere lo sposo di Mafalda, la quale con uno slancio che appartiene ad epoche diverse, ha intenzione di opporsi con tutte le sue forze, alla decisione già presa.

– 25 luglio 1917. Sono andato incontro a Mafalda che tornava dalla lezione alle signorine del “Fronte Moscati”. Mi ha detto che pensa a me e ai nostri discorsi, non dorme più, rifiuta di mangiare e quando vado da lei per la lezione vorrebbe non farmi andare più via. poi mi ha chiesto se tutto questo lo provavo anche io con lo stesso ardore, perché un terribile pensiero la tormentava. Io ho solo diciassette anni, e lei vent’otto, pensa che poi diventerà vecchia e io la lascerò, andrò via con donne più belle e più giovani, e lei ne morirà. Allora ho preso la sua mano e l’ho condotta all’interno della chiesa, e davanti a lei ho giurato sul Crocifisso che non la lascerò mai, nel bene e nel male, pena la meritata morte immediata che Nostro signore avrebbe riservato a me.

– 28 luglio 1917. Oggi nel salottino dove facciamo lezione, Mafalda ed io abbiamo placato il nostro ardore unendoci nel nome di questo amore che ci sconvolge togliendoci tutti i freni. L’abbiamo fatto più volte, e sempre volevamo ricominciare, è stata una festa dei sensi che ci ha svuotato, la tenerezza e il languore poi, ha preso il sopravvento come se avessimo ricevuto una benedizione attesa e bramata da tanto. I signori Guevara sono andati al mare e si tratterranno tutta la giornata, Angiolina con Lucietta, a mezzogiorno hanno portato a mare il pranzo caldo che avrebbero servito e consumato con loro. Mafalda li avrebbe raggiunti nel pomeriggio. Sono con Mafalda emozionato e felice.

Mi ritrovo ad essere contento sorridendo da solo e esprimendo ad alta voce i miei pensieri pieni di condivisione per i due innamorati. Passeggio per il salone avvolto nel plaid sorseggiando l’anice, mi fermo a guardare il mare dalle finestre e sorrido. La luce esterna è indecisa, indugia, il buio non è ancora buio, la luce del giorno scompare, diminuisce a vista, mentre l’ombra si impadronisce di tutto, creando una nera barriera tra il mare e i riflessi nei vetri delle finestre. La burrasca sembra passata, sento solo i cupi tonfi delle onde lunghe, rotte sugli infiniti gusci di pietra che mi separano dal mare. Continuo a leggere.

– 15 agosto 1917. Sono venuti qui ad Ischia mio padre e mia madre, oggi è la festa dell’Assunta siamo ospiti a pranzo in casa Guevara, dopo la messa, siamo andati tutti in terrazza ad assaggiare il bicchierino di “vermout” gelato, poi a pranzo. Mio padre e don Salvatore hanno parlato per tutto il tempo della guerra e i suoi sviluppi, mia madre e la signora Porzia del matrimonio di Mafalda, ed io Mafalda e Rosolina siamo tornati in terrazzo per giocare a “volano”. Mafalda mi ha spiegato che il gioco si chiama “badminton” il volano è la pallina con la coda che si colpisce con la racchetta.

– 9 settembre 1917. Non ho scritto altro fino a oggi perché ho studiato molto, tanto è vero che mi sono licenziato col voto alto in inglese, Mafalda è fiera di me. Mi ha fatto leggere una lettera del suo promesso, il comandante Mattia Serre, il quale chiedeva a Mafalda di raggiungerlo a Roma per prendere visione di una casa che vuole comprare per loro due lì a Roma. Ha strappato la lettera e ha giurato che non andrà mai a Roma ad abitare e che presto metterà fine a questa storia. Ho chiesto ed ottenuto da mio padre, come regalo per la promozione, di rimanere fino alla fine del mese qui ad Ischia alla pensione “Florian”.

– 21 settembre 1917. Lucietta è venuta alla pensione “Florian”, mi ha consegnato un biglietto di Mafalda, mi aspetta subito alla chiesa “Madre del Buon Consiglio” a Casamicciola. Ho preso una carrozzella, in mezz’ora stavo da lei. La chiesa è deserta, ci sediamo sugli scanni dell’ultima fila, e mi dice: “Eduardo, amor mio, non mi sono mai sentita così felice e nello stesso tempo tanto infelice, il mondo è cambiato in pochi minuti, perché sono ormai passati più di quindici giorni che il mio ciclo non compare, ed io ho il flusso molto regalare, e mia madre già lo sa, glielo ha detto Angiolina che segna sul calendario i giorni che io e Rosolina abbiamo il ciclo”. Io non riuscivo a parlare, la sorpresa mi ha bloccato la parola, ho detto solo: “Ma che significa?” Ha risposto: “Sono incinta”, aspetto un figlio.

Mafalda incinta? La rivoluzione è cominciata. Donna eccezionale la mia prozia, fiera e piena di dignità. Sono certo che vincerà, lo scandalo che verrà fuori sarà sconfitto e battuto dal loro amore, dalla loro energia vitale cosi prepotentemente espressa.

I miei commenti muoiono lì, su quella pagina, non c’è altro scritto che mi racconti il seguito, perché sono state strappate, me ne accorgo da piccoli lembi di carta ancora attaccati alla cucitura. Il foglio successivo continua descrivendo altro.

…perché ormai siamo in tre a mangiare le quattro patate bollite che Aniello mi porta tutti i giorni, da quando siamo partiti. Peppino Conza e Gennaro Caruana, i miei compagni di viaggio, non hanno più soldi per pagarsi il cibo che Aniello ruba nella cucina del piroscafo, ed io ho deciso di dividere con loro le patate e il fiasco d’acqua.  Peppino mi ha ringraziato e ha detto che era in debito con me. Aniello, prende una lira al giorno da me per portarmi da mangiare, se scoprono che ruba, lo imprigionano a bordo e gli tolgono la libretta di marinaio, non potrà più lavorare, poi metti che noi tre anche se chiusi in questa stiva dove topi e scarafaggi ci fanno compagnia notte e giorno, stiamo andando a New York senza essere dichiarati, siamo clandestini, e Aniello rischia molto ad aiutarci.

– 5 ottobre 1917. Peppino e Gennaro sono calabresi di un paese che si chiama Cutro. Peppino mi ha detto che non voleva più andare in America, tiene moglie e un bambino di tre anni, ed è la terza volta che viene a New York. Lavora con il sindacato e Gennaro è la prima volta che viene e fa il contadino. Io non ho capito che lavoro fa Peppino, dopo tanti giorni di mare è la prima volta che dice qualcosa di sé, Gennaro è muto, proprio muto, è nato cosi, e di lui non so proprio niente.

– 7 ottobre 1917. Dopo 16 giorni di mare oceanico Atlantico, domani arriviamo a New York. Da quando sto qua dentro non penso altro che a Mafalda, spesso piango, e penso al nostro destino, questo piroscafo si chiama “Duca degli Abbruzzi”. Trasporta migliaia di emigranti, molti dormono sui ponti, e quelli della terza classe, sono divisi in categorie, gli uomini soli verso prua, le coppie sposate a centro nelle stive, e le femmine sole a poppa, tra loro delle pareti di legno, che poi tolgono per caricare le merci, Aniello è addetto al montaggio e smontaggio delle pareti nelle stive, e ci ha portato la paglia, e sopra questa dormiamo. I nostri bisogni li facciamo in un angolo, dove si depositano catene per la zavorra e il carbone.

– 8 ottobre 1917. Una chiatta ha accostato a fianco del nostro piroscafo, è l’una di notte, per scendere Peppino ha detto di aspettare la chiatta con gli operai. Mentre salivo sulla chiatta, Peppino ha salutato un tizio che gli ha chiesto chi ero io, lui doveva prendere a bordo solo due persone, Peppino ha detto loro che ero il “compariello di zi ‘Tore Ruvolino”, gli scaricatori mi hanno salutato togliendosi la coppola e ci hanno accompagnato alla banchina nei pressi di grossi capannoni. Ci aspettava una automobile nera, l’autista ha salutato Peppino e si sono allontanati, io sono rimasto con Gennaro in automobile con un grosso groppo alla gola. Volevo piangere, i ricordi mi straziavano, ero morto di stanchezza e, sembrava di stare sulla luna e non più sulla terra. Peppino con l’autista è tornato, e siamo partiti, ci siamo fermati all’alt di due poliziotti che controllavano l’uscita dal porto davanti a una sbarra. Uno di questi si è avvicinato al finestrino e l’autista gli ha dato una mazzetta di soldi, credo dollari, il poliziotto ha guardato dentro l’automobile ha salutato Peppino e me, ha fatto segno di aprire la sbarra e siamo andati via.

Il racconto di Eduardo in queste ultime pagine del diario mi lascia perplesso, cosa è accaduto? Eduardo parte clandestino sul piroscafo “Duca degli Abruzzi” carico di emigranti, è una fuga?  Si è allontanato da Napoli per sfuggire a un pericolo? Un pensiero lo faccio anche per i suoi compagni di viaggio attesi a New York, e chi sarebbe; torno sui righi precedenti dove rileggo il nome di: “zi ‘Tore Ruvolino”?

Mi alzo e verso l’anice nella tazza, bevo e sento che la gola mi da un po’ fastidio, bevo un altro sorso e il lieve bruciore scompare. Rapito da quelle domande faccio pipi nel water blu del mio bagno come se fossi un automa, poi esco sul terrazzo, un vento freddo mi scuote mentre i brividi mi fanno accapponare la pelle. Provo ancora ad accendere la caldaia, ma non c’è niente da fare rientro in cucina e mi porto il pacco di grissini comprati al duty free di Amsterdam. Riprendo il quaderno e giro la pagina con il mio dito bagnato di saliva.

Abbiamo percorso forse un chilometro e siamo entrati in un cantiere in costruzione, è tutto buio l’autista ci lascia e va via. La luce di una lanterna ci viene incontro e ci guida tra mucchi di sabbia, pile di mattoni e cataste di tavole di legno che emanano un intenso profumo di pino, l’uomo con la lanterna senza dire una parola, apre la porta di una baracca, lascia la lanterna a Peppino e va via. Nella baracca ci stanno tre letti, un tavolino con sopra una pagnotta di pane un pezzo di formaggio giallo come il colore della zucca in un piatto, e una bottiglia di vino. Chiedo a Peppino che sta succedendo, chi sono questi che ci aspettavano, dove ci trovavamo, chi era questo “zi’ Tore Ruvolino” che tutti gli italiani qui nel porto sembrano conoscere?. Peppino mi fa segno di zittire, me ne avrebbe parlato dopo. Cosi…

Giro la pagina delicatamente con il sistema di prima e continuo a leggere.

…capisco dai suoi gesti. Gennaro prende la bottiglia e ne beve una buona parte, poi si stende pesantemente sulla branda più vicina si avvolge nella coperta e comincia a russare. Mangiamo una fetta di formaggio e un po’ di pane un sorso di vino e Peppino mi chiede se volevo pisciare, ci copriamo con le coperte e andiamo fuori, fa molto freddo, e al buio, dietro la baracca sotto una tettoia dove ci stanno balle di fieno al coperto mi dice di sedere vicino a lui e mi da un sigaro, gli dico che non fumo e poi continua: “Eduardo, tu sei una persona per bene, hai diviso con noi il tuo cibo, ma qui a New York non posso fare più niente per te. Io sono condannato a morte, domani mattina vengono a prendermi perché devo eliminare una persona, un certo Antonio Cutillo, un macellaio di Mulberry street che non tiene buon sangue con certi amici, non vuole restituire delle cifre avute in prestito per allargare la macelleria, io sono qui appositamente per chiudere la questione, così i figli capiscono e pagano, hai capito?”    “E chi sono questi che ti hanno chiesto di…” “Eduardo” ha risposto, “la black hand, la mano nera, ecco chi. E siccome sono conosciuto dalla polizia perché sono venuto già altre…

Ho girato la pagina per continuare a leggere ma qualcosa sul margine basso ancora le trattiene, come se fosse incrostata, tento ancora ma così si rompe, nulla di male, la scrittura termina prima.

…volte con gli stessi incarichi, ormai sono bruciato, e quindi non c’è salvezza per me, domani faccio fuori Cutillo e poi la polizia mi prende o mi ammazza in uno scontro, già si sono messi d’accordo, i capi don Ignazio Lupo e don Peppino Morello mi hanno venduto per poter eliminare Cutillo, cosi la polizia fa bella figura, e se io scappo, mi elimina Gennaro, per questo è venuto qui con me, è tutto quello che mi ha detto “u tripulin “, l’autista che è venuto al porto. È zi ‘Tore Ruvolino, il boss di Capo Rizzuto, il compariello “che l’ha mandato, per tenere sotto controllo pure i fatti di New York”.  Ricordati Eduardo qui all’America due cose sono veramente importanti, i dollari e la libertà, i dollari li puoi fare come vuoi e quando vuoi, ma la libertà costa, costa cara, sempre. Peppino ha poi preso dalla tasca una mazzetta di dollari e mi ha detto: “questi soldi tu li devi portare al sindacato degli scaricatori, consegnali a Pasquale Carusone, ci pensa lui a mandarli a Rosa mia moglie. Sono mille dollari, me li ha dati l’autista poco fa insieme al revolver, tu devi solo scrivere un biglietto, tu sai scrivere hai fatto le scuole, è un biglietto per Rosa, mia moglie, non mi dire di no Eduardo, tu sei l’unica persona di cui mi posso fidare”. Mi da un foglio già tutto piegato, un lapis e poi mi detta: Carissima Rosa, questi sono mille dollari, non credo che torno per Natale, e forse neppure dopo. Baciami a Carluccio e ti abbraccio. Per sempre tuo Peppino. 

Adesso non devi parlare più con nessuno, dimentica ogni cosa, Eduardo noi non abbiamo mai parlato, capito? Mi ha abbracciato e siamo rientrati.

Questo raccontare di Eduardo cosi asciutto, freddo, mi fa sentire a disagio. Mangio i grissini davanti alla finestra senza pensarci, il buio è impenetrabile, dal mare arriva vento che deposita un pulviscolo d’acqua che lascia sale sui vetri, qualche brivido mi arriva dalla schiena e ritorno al quaderno chiedendomi di Mafalda, così lontana, con una gravidanza sempre più evidente.

– 9 ottobre 1917. L’automobile ha portato via Peppino e Gennaro, ho nascosto questo diario dentro il pantalone stringendolo con la cinta, e mi sono avviato verso il porto in cerca di Carusone e il sindacato. Ho incontrato molte persone, carretti che trasportavano di tutto, una vera folla con valige e pacchi in fila davanti a uffici con poliziotti che controllavano. Ho chiesto del sindacato scaricatori, in lingua inglese, in italiano, nessuno mi ha dato una informazione corretta, ho girato poi chiedendo di Pasquale Carusone, il nome che Peppino mi aveva detto, subito mi hanno indicato un capannone, io sono andato e ho chiesto di lui, mi hanno detto che non c’era, di…

Giro la pagina, con due dita e saliva, sempre con delicatezza.

…tornare nel pomeriggio. All’uscita due poliziotti mi hanno preso e portato nel loro ufficio. Un graduato dietro una scrivania mi ha chiesto i documenti, se ero emigrante, e con quale piroscafo ero arrivato. Ho risposto di sì e che ero arrivato col “Duca degli Abruzzi” lui ha detto che non risultavo nell’elenco dei passeggeri del piroscafo “Duca degli Abruzzi”e quindi ero clandestino, forse in fuga  per reati gravi . Mi dice nel suo stentato italiano che i delinquenti in America non li vogliono. Mi manda in una cella dove due poliziotti mi danno dei calci per farmi sedere sulla panca che è l’unico mobile in quel luogo che puzza di piscio. Ho dormito seduto fino a quando due poliziotti mi vengono a prendere: Uno dei due lo riconosco è quello che ha preso i soldi dall’autista, credo che pure lui mi abbia riconosciuto. Entriamo nell’ufficio dove sono stato stamattina, ci stanno due persone, uno è molto alto vestito di nero, porta la bombetta e il cravattino, l’altro pure è vestito di nero. Quello alto mi dice di essere il tenente Joe Mastrostefano, quello accanto a lui, un tipo tarchiato, bassetto, con una coppola nera, è Pasquale Carusone. Il tenente “Tira fuori dalla giacca i miei documenti e mi dice che devo comportarmi bene, mi fa vedere il visto del controllo di Ellis Island ufficio immigrazioni, quindi posso circolare liberamente, sono affidato al signor Carusone però, il quale mi prende sotto la sua custodia, poi mi dice di stare lontano da persone di malavita. Proprio stamattina a Malberry street a little Italy la polizia in un conflitto a fuoco ha eliminato due delinquenti. Il signor Carusone è il presidente della cooperativa degli scaricatori, magari trova un bel lavoro qui nel porto, poi rivolto a Carusone dice: don Pasquà con quei muscoli che tiene ‘sto guaglione, ve lo portate sotto i piroscafi”. Carusone saluta il tenete e andiamo via. Sulla porta il poliziotto che aveva preso i dollari dall’autista, ci raggiunge e mi dice in americano: “Say hello to the tripulino”. Appena saliti in automobile Carusone mi da uno schiaffo, e dice: “Non chiedere mai di me a nessuno, chiedi del sindacato là mi trovi. Ora basta andiamo a casa mia e non fare più domande”.

Sono senza parole, bevo dei sorsi di anice, la gola mi da fastidio, e sternutisco, non voglio fermarmi voglio leggere e capire fin dove può arrivare la malasorte di questo ragazzo che chiedeva solo di amare. Le pagine sono sempre costretto a girarle con cautela umettandomi le dita.

Eduardo presumo che sia andato via da Napoli per quanto è successo, imbarcandosi sul “Duca degli Abruzzi, ha viaggiato da clandestino con due assassini chiamati dalla “black hand, la mano nera americana”, entra suo malgrado in un perverso giro di connivenze, complicità e di violenza dove la polizia e la malavita vanno a braccetto.

Alzo il telefono e chiedo di portarmi una” pizza margherita” alla pizzeria “Sciala Popolo” in piazza dei “Quattro orologi”, ho fame, il freddo si fa sentire, qualche colpo di tosse arriva sul respiro, ma non mi scompone. Nei miei pensieri, stanchi di queste elucubrazioni, Josèka sopraggiunge con il suo tepore domestico a riscaldarmi. Provo piacere a pensarla, i suoi occhi verdi mi allontanano da questa lettura ansiogena che coinvolge la mia famiglia. Il cicalino del cancello mi avvisa che la pizza è arrivata.

FINE SECONDA PUNTATA