Almodóvar ripercorre la sua vita scegliendo un alter ego: Antonio Banderas. Il regista si racconta senza filtri, senza paura di raccontare il suo lato più privato, quello fatto di problemi fisici (mal di schiena, emicranie, acufeni, difficoltà di deglutimento), che resero difficile il suo lavoro sul set, e di problemi più dolorosi, quelli della mente, che vengono definiti “mali astratti”. Chi poteva tradurre meglio il suo cinema se non Banderas (come per Fellini era stato Marcello Mastroianni), con cui ha realizzato otto pellicole e ha lavorato per più di trent’anni? “Dolor y Gloria” è un viaggio nei ricordi, negli odori e nei colori che richiamano alla mente i momenti più importanti della vita del protagonista. Si inizia dall’infanzia e dal rapporto con la madre, per poi affrontare gli amori (tra cui quello viscerale per il cinema), le dipendenze, i sensi di colpa, le ossessioni di un artista che non conosce la realtà se non attraverso la sua arte.
La madre, interpretata da Penélope Cruz, è al tempo stesso amorevole ed intransigente; è disposta a fare tutto per suo figlio, è una donna forte, dura ma premurosa. Almodóvar riesce a rivivere questo rapporto raccontandolo al suo pubblico, comprendendo a fondo i suoi sbagli e le sue mancanze, i rimorsi per non essere stato perfetto e per aver causato dolore, la consapevolezza di essere per sempre grato dell’amore e dell’esempio di resilienza che la madre gli ha fornito. Se la simbiosi con la madre è inscindibile, lo è ancora di più quella con il cinema: l’essenza di Almodóvar è la sua arte. Il regista si mostra fragile, umano: “Dolor y Gloria” è il suo testamento, e per questo sceglie di raccontare ogni aspetto della sua vita, anche la sensazione di smarrimento di fronte alla morte, i momenti in cui si è sentito perduto e non ha amato se stesso e di conseguenza non ha amato il cinema.
Il suo però non è un testamento funebre, è un’autobiografia piena di vita, che invita ad apprezzare a fondo la bellezza, i valori e a coltivare i legami. È un “8½”, un “Caro diario”, attraverso cui Almodóvar rivendica il suo diritto di invecchiare ed è un modo per riconciliarsi con se stesso e con la vita. Crisi creative, malattie, ossessioni, desideri e passioni: “Dolor y Gloria” (o, meglio, “Tutto su Almodóvar”) è un film che consente al regista di fare i conti con il proprio passato per liberarsi del peso di alcuni ricordi. Li vuole condividere, per sfogarsi, ma anche per renderli eterni, reperibili quando sentirà il bisogno di riviverli. La sua è una confessione a cuore aperto che inevitabilmente non lascia il pubblico indifferente e che fa commuovere. Almodóvar non può fare a meno di rivelarsi, e per gli spettatori è un’occasione per comprendere a fondo la sua essenza e la sua arte. Non è facile mettersi così a nudo, raccontando momenti difficili come quelli in cui era dipendente dall’eroina, che hanno debilitato il suo fisico e la sua mente. Attraverso la sua opera, Almodóvar ha l’occasione di dire quello che (forse) non aveva mai avuto il coraggio di confessare e il cinema, sua unica e vera passione, si presenta come il mezzo più adeguato ad esprimere anche l’indicibile. Lo spettatore legge i sentimenti, comprende i silenzi e gli sguardi, avverte il dolore: quella di Almodóvar è una vita piena di eccessi ma anche di successi, “Dolor y Gloria” è un film nostalgico ma consapevole, che spinge gli spettatori a maturare, a chiudere i conti aperti, a chiedere scusa, a perdonarsi.
Mariantonietta Losanno