Michael Fassbender interpreta le due facce di Brandon: affascinante business man, e uomo affetto da una grave dipendenza dal sesso e dalla pornografia.
“Shame” è un film di una potenza devastante, capace di rappresentare l’alienazione umana del nuovo millennio con coraggio e senza mezze misure: Steve McQueen non è uno di quei registi che dice quello che il pubblico vuole sentirsi dire; non avverte il bisogno di compiacere i propri spettatori, piuttosto è concentrato ad affrontare due tematiche complesse, la Libertà e il Potere. Alla prigionia del carcere raccontata in “Hunger”, prima opera del regista, McQueen sostituisce qui una trappola mentale altrettanto violenta, umiliante e devastante, paradossalmente incoraggiata dalla possibilità di sentirsi ancora più liberi comprando tutto e subito: un film, una escort, una stanza d’albergo. In “Shame” le scene si succedono meccanicamente, automaticamente, proprio per sottolineare il senso di solitudine assoluto, la mancanza di affetti e la sofferenza. Le immagini sono crude, i corpi nudi sono inquadrati ossessivamente per mostrare la mancanza di pudore. McQueen pone inoltre le basi per un’altra interessante riflessione sul rapporto tra l’uomo e le immagini della società contemporanea (programmi televisivi, pubblicità, YouTube, siti pornografici) e sugli effetti della loro proliferazione: anche l’uomo stesso diventa un’immagine illusoria e fittizia.McQueen sa raccontare la violenza, sia fisica che psicologica. Le sue pellicole sono violente, viscerali e hanno una sconvolgente potenza visiva. Non c’è, però, nessuna morbosità o volgarità, ogni sequenza è funzionale a raccontare la solitudine struggente di Brandon. Il regista predilige piani sequenza lunghi, per addentrarsi meglio nel vissuto dei personaggi. La macchina da presa si muove silenziosa, osservando sempre più da vicino, in modo quasi persecutorio ma senza mai accennare possibili giudizi: McQueen non vuole fornire morali, intende solo fornire al pubblico un significato alla parola vergogna.In “Shame” la vergogna è ovunque, a partire dal titolo: è nascosta nella costante paura di Brandon di essere scoperto dai colleghi o nell’incontro con una donna diversa dalle altre con cui potrebbe nascere qualcosa di più forte del sesso. Fassbender riesce ad esprimere ogni sfaccettatura di questa parola, offrendo al pubblico una performance memorabile. McQueen penetra con precisione chirurgica nelle coscienze di ognuno di noi: gli spettatori, però, non devono sentirsi coinvolti dalla patologia di Brandon al punto da vergognarsi della vergogna altrui. Non bisogna consentire, dunque, ad un cinema così potente di prendere il sopravvento sulle nostre emozioni: disgustarsi in modo così profondo equivarrebbe a dire che la vicenda ci riguarda troppo da vicino.
È paradossale il fatto che è proprio la libertà a rendere Brandon malato: in “Hunger” era la prigionia a rendere schiavo, in “Shame” è l’assoluta libertà la vera prigione. Questo spinge il pubblico a soffermarsi su quanto oggi sia tutto a portata di mano e di quanto, quindi, Brandon assuma i connotati di un uomo come tanti, incapace di provare affetto e che sfrutta il sesso come forma di alienazione, come se non si sentisse adatto a provare sentimenti. Siamo sprofondati in una forma acuta di nichilismo, in cui stiamo perdendo di vista i limiti di questa eccessiva libertà di cui disponiamo.
Mariantonietta Losanno