Il secondo lungometraggio di Christopher Nolan è un intricato viaggio nella mente umana e nella memoria di Leonard Shelby, un giovane investigatore che lavora per una compagnia di assicurazioni. C’è però una caratteristica particolare che rende il suo lavoro alquanto arduo: Leonard soffre di una strana forma di amnesia che lo porta a dimenticare tutti gli eventi più recenti. La sua memoria la costruisce lui stesso, servendosi di foto polaroid, di biglietti e di tatuaggi per fissare nella mente gli eventi più significativi. Grazie a questo meccanismo riesce a ricordare lo stupro e l’omicidio di sua moglie, Catherine, avvenuto in seguito ad una aggressione domestica da cui Leonard è rimasto illeso: la sete di vendetta è talmente forte da spingerlo a lottare contro la sua amnesia.
“Tutti abbiamo bisogno di ricordi che ci rammentino chi siamo”, dice Leonard. Che posto occupano i ricordi nel formarsi della nostra personalità? E, soprattutto, saremmo quello che siamo se qualcuno cancellasse la nostra storia e fossimo costretti a vivere senza radici e senza prospettive future? Questi sono interrogativi che Christopher Nolan affronta con un approccio innovativo, servendosi di una struttura narrativa contorta che procede a ritroso e che al tempo stesso confonde e affascina. Nolan costruisce un sistema ad incastro -una sorta di puzzle- e fornisce al pubblico tutti gli elementi per arrivare fino in fondo, fino all’inquietante e spiazzante finale. Nonostante il susseguirsi confuso delle azioni, di cui manca puntualmente l’antefatto, lo spettatore è disorientato quel tanto che basta a renderlo partecipe dell’esperienza del protagonista, riuscendo anche a dare un senso a ciò che vede, seppure con qualche sequenza di ritardo.
Il regista dimostra che la linea che separa realtà e immaginazione è estremamente labile. Sta allo spettatore comprenderlo: quello di Nolan, infatti, può essere definito una sorta di cinema interattivo, in cui lo spettatore, a differenza di Leonard, può sentirsi libero di fidarsi delle proprie percezioni e sensazione nell’attribuire un significato alle cose. Chi assiste, dunque, non è meno protagonista di chi crea. Nolan si sofferma poi sull’idea di verità: che cos’è realmente? Siamo sempre disposti ad accettarla? (“Tu non vuoi sapere la verità, tu crei la verità”, recita una della battute del film) È possibile che Leonard rimuova alcuni ricordi come rifiuto? Come se non avesse la forza di affrontarli? È molto più facile crearsi un universo parallelo, in cui è possibile scegliere a cosa credere. C’è anche da domandarsi, quindi, quanto ci si può fidare realmente dei nostri stessi ricordi. Leonard non è interessato a scoprire la verità, quanto piuttosto a raggiungere una verità che si adatti alle proprie necessità.
“Memento” è un’opera che non si dimentica, che necessita di più di una visione e che dimostra la capacità di Nolan non solo di affrontare a dovere un disturbo psichico, l’amnesia appunto, ma anche di riuscire a seguire linee narrative opposte (quella a colori e quella in bianco in nero) avanzando in maniera lineare. Il regista riesce a realizzare percorsi sconnessi che viaggiano insieme per poi combaciare nel finale. In “Memento” non c’è solo il piacere di creare un gioco cervellotico per sfidare il pubblico, ma c’è anche e soprattutto l’intento di mettere in scena un dramma personale esplorando gli spazi più reconditi dell’essere umano.
Mariantonietta Losanno