IL TOTANO RICCHIONE – prima puntata

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I CAPITOLO

LA LIMONAIALIMONAIA  IL TOTANO RICCHIONE   prima puntata

   –   di Elvio Accardo   –

Il vaffanculo fu più di un sussurro. Al buio, cercare le chiavi dell’auto scivolate nell’erba secca di fianco alla portiera dell’auto, è certamente un increscioso intoppo senza però particolare gravità.

Per Amedeo, invece, che aveva le mani occupate da un libro, un pullover, da un pacchetto di sigarette e da un bastone, furono quasi una catastrofe, perché quando si chinò per tastare l’erba, così come fa un cieco, il pacchetto di sigarette posto fra il mignolo e l’anulare dell’altra mano saltò letteralmente. Venendo a mancare il sostegno, il pollice e l’indice subito mollarono il libro, il bastone poi rotolò sotto l’auto, a causa del rapido e scomposto tentativo di agguantare il libro durante il suo precipitare; solo il maglione era salvo, poggiato ancora sulla sua spalla destra, ma lentamente scivolò sulla mano che ancora annaspava nell’erba nera, nella ricerca ormai di tutto, compresa la dignità ferita irrimediabilmente.

Riuscì a trovare tutto, rimase danneggiato solo il suo candido pantalone di puro lino quando recuperò il bastone canadese sotto l’auto mentre poggiava il ginocchio per terra.

Si avviò al cancelletto laterale, che da Piazza Vescovado scende in un viottolo lastricato con blocchi di basalto, che molti anni prima erano la continuazione del lastricato dell’intera Piazza ora coperta dal bitume, il quale s’inoltra nelle profumate limonaie di Massa Lubrense.

Amedeo l’aveva percorso centinaia di volte, ma ora gli sembrava un brano di cielo scintillante d’antracite. Le luci basse, fievoli dei verdi illuminatori a forma di funghi, gli vennero incontro tra gli alberi di limoni. Il cielo divenne di colpo nero, basso, inquietante; illuminavano quella coltre di pece solo i riflessi dorati e gli infiniti grappoli di limoni appesi agli alberi, che nei mesi caldi, sono coperti con “pagliarelle” o fitte reti scure che con la loro ombra fredda conservano intatta la fragranza, il profumo, la pelle cerosa e il succo agro dei frutti.

Entrò nella limonaia percorrendo il breve sentiero di terra battuta che porta alla terrazza sul retro del palazzo Spada, in compagnia di “pupa e musetto” i due cocker di Rosanna, che sbucarono scodinzolanti dall’ombra nera del vialetto, scontrandosi con il bastone, al quale si poggiava ormai con naturalezza.

Rosanna si accorse del suo arrivo, parlava con una sconosciuta che gli era stata presentata qualche ora prima; fluenti capelli rossi su una pelle abbronzantissima ritagliata in una scollatura di un abito verde smeraldo che, illuminato da uno dei lampioncini in controluce, la faceva apparire una sagoma colorata come le ombre di Gauguin, sullo sfondo del mare di notte.

Amedeo attraversò la terrazza sorridendo agli altri invitati che tra le risate e fumo di sigarette, gli volgevano un distratto saluto.

Raggiunse il muretto di mattoni che recingeva il giardino-terrazza, passando per il breve viottolo coperto di ghiaia delimitato da selvagge piantine grasse, superando le due piante d’ibiscus, i cui i fiori rossi erano chiusi al buio della notte già da ore.

Posò le sigarette e il libro sul tavolino adiacente al muretto e il pullover sulla sedia. Sedette sul muretto, alla luce di un lampioncino, poggiando la gamba sulla sedia, quando sbucò da dietro agli ibiscus Gaetano, il marito di Rosanna, sbuffando rumorosamente il fumo della sua sigaretta ridotta poco più del filtro, segno inconfondibile che aveva già bevuto abbastanza.

“Sei tornato finalmente” disse Gaetano con un sorriso che gli scopriva sempre troppo i denti; la sua bocca larga e i denti grandi facevano rimpicciolire gli occhi, che per l’alcool ingoiato, rendevano il suo sguardo azzurro acquoso e spento.

“Ciao Gaetano, siediti, ho preso tutto: le totanare grandi, quelle fosforescenti, Giovannino mi ha dato pure il filaccione piccolo, ha detto che glielo avevi chiesto tu ieri”. Gaetano si sedette accanto ad Amedeo, continuando a succhiare il filtro ormai spento della sigaretta.

“Hai fatto bene, lo andiamo a mettere davanti al Vervece agli inizi della settimana, quando già la gente comincia a sfollare un po’; col filaccione piccolo è più facile tirare su qualcosa di grosso” disse girandosi a guardare il mare, che si frangeva rumoroso e cupo cinquanta metri più in basso. “Hai visto? Il 14 e il 15 Agosto, qui a Massa, il tempo è sempre incerto.  Non voglio dire che può piovere, ma il mare è sempre lungo, ti fa stare sempre in pensiero; meno male che c’è la festa della Madonna della Lobra, se no moltissima gente e i turisti si fermerebbero a Sorrento. A proposito, c’era traffico a Sorrento?” “Si, molto… Ho fatto questi pochi chilometri in più di mezz’ora, eppure manca poco a mezzanotte; Giovannino ti manda a dire che la tua macchina è a posto, hanno lavorato tutto ieri e oggi per accontentarti, domattina sta qui a Massa alle 8.00 con la macchina. Ha detto che per don Gaetano San Severino avrebbe lavorato anche domani, Ferragosto, pur di accontentarlo”. Gaetano non rispose, si accese una sigaretta e si alzò, guardò gli altri che chiacchieravano sotto la limonaia, poi disse: “Giovannino è più stronzo di tutti, conservasse per la moglie queste leccate, mi ha chiesto un milione e mezzo per approntarmi la macchina per domani, soldi che devo chiedere a Rosanna” strinse gli occhi come fanno i miopi per guardare lontano, e tirò profondamente il fumo dalla sigaretta appena accesa, i polmoni non resistettero al pugno irritante della nicotina ed espulsero violentemente la bolla tossica attraverso colpi di tosse prepotenti che irritarono la gola di Gaetano, inacidendo la saliva che subito sputò girandosi verso le onde; si calmò lentamente.

Guardò Amedeo e chiese “Bevi qualcosa? Vado a prendere i bicchieri”. “Grazie” rispose, mentre l’altro si sfilava i mocassini rimanendo a piedi nudi e avviandosi al tavolo poco lontano.

Cos’è questa storia dei soldi che doveva chiedere a Rosanna? Da quando Amedeo era arrivato nel pomeriggio, aveva parlato pochissimo con Rosanna e si erano limitati a raccontare molto superficialmente gli avvenimenti degli ultimi anni senza mai entrare negli argomenti, i quali, così come li avevano presentati, sembravano banali e totalmente vuoti, a cominciare dai loro rispettivi menage, per finire sul falso incidente che lo costringeva a portare il bastone.

A parte la sincera sorpresa di Rosanna, anche il racconto dell’incidente non aveva suscitato granché di emozioni, specialmente in Gaetano il quale si era limitato a chiedere: “Ma a pesca di totani domani sera andiamo lo stesso, a costo di portarti in braccio, andiamo con il Lucia Serio, il gozzo di Feliciello”. Amedeo, te lo ricordi Feliciello? Il figlio di Gennaro “a cannuccia” il barista, Gesualdo.”  Amedeo aveva annuito distratto, sorpreso da un lampo languido e malinconico negli occhi neri di Rosanna.

“Tre anni fa Feliciello ha comprato il bar in piazza, con tutto l’appartamento del primo piano, dieci anni fa faceva il guardiano del mio gozzo”. La conversazione tornò disinvolta e Rosanna parlò dei preparativi per il ricevimento della serata. Unico momento in cui aveva colto un attimo di abbandono in Rosanna rimaneva proprio il velo lieve di nostalgia evocato dalle parole di Gaetano che continuava a raccontare episodi ed esperienze vissuti insieme agli amici anni prima, che avrebbero dovuto provocare ilarità, commenti ironici, battute, ma niente di tutto questo accadeva, solo qualche sorriso compiacente e qualche commento stanco veniva da Amedeo e Rosanna. Il languore dagli occhi di Rosanna non scomparve per tutta la conversazione,

Gaetano ritornò nella luce del lampione, con due bicchieri coperti di brina; ne offrì uno ad Amedeo, poi bevve dal suo un lungo sorso; si rimise le scarpe, con abili movimenti dei piedi, e si avvicinò ad Amedeo, forse troppo, facendo cadere il maglione dalla sedia, sussurrandogli nell’orecchio: “Te l’ho presentata Ornella?” “Quella rossa che parla con Rosanna, quella col vestito verde”. Amedeo si girò e colse “la rossa” ancora impegnata a parlare con Rosanna, ma adesso erano sedute a uno dei tavolini di ferro battuto fine secolo smaltato bianco sotto la luce di un lampione del terrazzo, che rinforzava il rosso fiammeggiante dei capelli di Ornella. “È una meraviglia, ha appena venticinque anni, e me la scopo dall’inizio dell’estate.” Domani mattina ce ne andiamo a Procida, è di Milano e vuole conoscere la storia della “Graziella”. “Raccontagliela tu,” disse Amedeo, “Mi piacerebbe, ma non so quasi niente, mi ricordo anni fa andai a Procida per “la festa del mare”, dove si elegge la ragazza più carina, la “miss Graziella” ma non so altro, anzi mi ricordo che la festa si fa nel mese di agosto, e se siamo in tempo possiamo andare tutti insieme nella settimana prossima”.” Non credo” rispose Amedeo, “quella sagra a Procida si fa all’inizio di agosto, quindi ormai non è più possibile”. Gaetano accese una sigaretta con il mozzicone di quella che aveva in bocca, e dopo un lungo respiro disse: “E Graziella? Che puoi dirmi, sono certo che sai tutto, dai, dimmi quattro cose che posso anticipare ad Ornella, lei me l’ha già chiesto, io ho detto che ne avremmo riparlato domani sull’aliscafo”. “Mah, è una storia molto romantica scritta da Alfonso de La Martine, scrittore francese un po’ poeta un po’ romanziere, anche uomo politico. Viene a Procida nel secondo decennio dell’ottocento, incontra una ragazza bellissima, Graziella, e se ne innamora perdutamente, poi è costretto a partire per la Francia, e promette di ritornare, ma non ritorna, e così la povera Graziella ne muore di dolore, ma prima di morire gli manda una lettera con una ciocca dei suoi capelli che lo scrittore impedito a tornare, conserverà per sempre. Poi aggiungi alla naturale bellezza di Graziella, anche la modestia, la bontà, la grazia e tutte le meraviglie dei paesaggi di Procida, più le atmosfere dei luoghi ecco che si crea un mito, un mito così romantico e commovente che è vivo e vegeto ancora oggi, e chissà, per sempre, Graziella è questa, un mito romantico reso immortale da La Martine. Va bene cosi? Credo che puoi raccontare ad Ornella con la tua voce profonda e maschia, tutta la storia, magari si commuoverà e godrai anche di qualche lacrimuccia”. Gaetano rise tossendo e disse: “Non credo che Ornella si commuova per questo ma mi darà la ciocca di capelli”.

Amedeo lo guardò mentre beveva l’ultimo sorso liquido dal bicchiere, aspettando qualche altro commento che non arrivò. Poi Gaetano con un gesto pieno di complicità, appoggiò una mano sulle spalle di Amedeo avvicinando la bocca al suo orecchio dicendo sottovoce: “Ma credo che mi darà una ciocca di peli, non di capelli”. Rise con gusto, e con lo sguardo indagò tra le pieghe delle sopracciglia dell’amico, che si accorse, erano contratte, malgrado lo sforzo di rimanere impassibile.

Il silenzio era forse un po’ troppo lungo, perché Amedeo potesse mostrare bene la sua indifferenza. Forse il battito accelerato del cuore rimandava un rimbombo udibile anche alle orecchie di Gaetano, ancora troppo vicine alla sua testa; forse il fragore del flusso del sangue pulsante nelle tempie arrivava cupo ai polpastrelli della mano che gli sfiorava il collo, perché sorrise, sorrise come possono sorridere solo i postini, compiaciuti di portare i messaggi a loro conosciuti senza aprire i sigilli delle missive. Gaetano aveva scardinato con poche parole la porta di ferro che Amedeo aveva chiuso anni prima sui suoi sentimenti per Rosanna, con poche parole, usando magistralmente il suo volgare cinismo.

Gli aveva rivelato il suo rapporto con Ornella per calpestare i suoi ricordi con la donna che aveva amato sopra ogni cosa, e che lui gli aveva strappato con la forza della sua arrogante personalità, chiusa sull’indifferenza delle sue possibilità economiche… Ecco perché suonava stonata la richiesta di un milione e mezzo a Rosanna per pagare il meccanico.

Gaetano non aveva fatto i conti col tempo, con l’inesorabile lima che arrotonda, smussa, liscia, ammorbidisce anche le asperità più scabre, i solchi più profondi pur se fatti di acciaio.

Quei sentimenti così forti che Amedeo aveva provato per Rosanna, e che lo avevano torturato in seguito lacerandogli il cervello per anni, uscirono da quella porta di ferro dove li aveva imprigionati. Scivolarono fuori lenti, freddi, dopo il primo momentaneo sgomento, in una processione di ombre evanescenti, come un lieve vento nei capelli che addolciva i ricordi della sua giovinezza a Massa Lubrense, profumandoli di limoni.

Era la cruda offesa fatta a Rosanna che gli provocava un vago senso di nausea. Forse, anche la vicinanza della faccia di Gaetano che emanava puzzo d’alcool e di fumo rancido mischiato al suo eterno dopobarba aromatizzato al legno di sandalo.

Amedeo raccolse il pullover scivolato sulla ghiaia e lo appoggiò sul muretto a fianco a se dicendo: “E’ molto bella”. Seduta a quel tavolo sembra di vedere la bandiera italiana!” Gaetano rise di gusto e aggiunse: “Bianco il tavolo, rosso i capelli, verde il vestito. “Ci sta pure la testa turrita”, indicando Rosanna che appoggiava in quel momento il bicchiere di liquore ghiacciato alla fronte in cerca di refrigerio. “A proposito, Rosanna che ne pensa di te e Ornella”? “Non vedo conflitti”, disse Amedeo prendendo una sigaretta dal pacchetto sul tavolino liberty.

Gaetano si ritolse le scarpe che scalciò tra i cactus dell’aiuola: “Vedi Amedeo, Rosanna è proprio come il profilo della Repubblica, stampato sulle monete, impassibile, guarda lontano, non capisci mai se quello che le sta intorno le interessa”. Sono cambiate molte cose da quando sono morti i miei suoceri; lei ha ereditato tutto questo, la limonaia, il palazzo, la proprietà giù alla marina, e non vuole vendere nulla, io gliel’ho detto mille volte che sono solo spese, tasse e rompimento di coglioni, ma lei niente, non risponde, non si occupa di nulla e neanche mi permette di occuparmene. Vuole che tutto rimanga così com’è. Meno male che ci sta zia Tatella, che si occupa di vendere i limoni e di farli curare, s’interessa della casa e dei fitti giù alla marina. Qui a Villa Spada, veniamo d’estate. Rosanna già a Luglio, io due settimane ad Agosto, giusto per la festa della Madonna della Lobra; ormai sono tanti anni che a Ferragosto stiamo qui, tu lo sai. Ti sei scordato le feste che abbiamo fatto in questo giardino? Le serate passate su questa terrazza, le cenette che ha preparato per noi zia Tatella, dì, ti sei scordato?, … Ma Rosanna non sa nulla di Ornella, oppure se lo sa non si fa capire, oppure non se ne fotte. Più semplice, no?”

Gaetano s’interruppe perché gli amici si erano tutti alzati e li chiamavano per andare nella grande cucina a consumare la cena che zia Tatella e Rosanna avevano preparato nel pomeriggio.

Qualcuno che Amedeo non conosceva si avvicinò a loro, prendendo sottobraccio Gaetano. Era un uomo basso con una camicia blu un pò sudata, aperta sul petto e senza alcun capello. La sua testa rifletteva la luce del lampione quando Gaetano disse: “Renato ti voglio presentare Amedeo Serra, vecchio amico mio e di Rosanna, e di questa città” Gaetano pronunciò la frase disegnando nell’aria ampi cerchi con le mani. Amedeo allungò la mano e strinse quella del nuovo venuto, appiccicosa come uno straccio umido. “Renato Garofano… Gaetano, mi ha già parlato di lei, ma non c’era bisogno, ho letto alcuni suoi libri di racconti; io adoro il mare”. E quindi capirà, i suoi libri non potevano mancarmi”: “Renato viene a pescare con noi domani” – disse Gaetano “a proposito, io torno da Procida alle sette, troviamoci al bar di Feliciello a quell’ora, non scordare che c’è la processione e che dobbiamo arrivare quasi a punta Campanella. Quest’anno ci stanno i totani a strafottere. “Amedeo, porta tu la borsa delle lenze a Feliciello domani mattina, poi ci pensa lui a sistemare il gozzo. Lei non viene di là?” disse Renato. ”Avviatevi, vi raggiungo” rispose Amedeo.  Renato s’incamminò verso la cucina, seguito da Gaetano scalzo.

Le ultime risate si smorzarono sull’ingresso illuminato della cucina, che si apriva sul terrazzo come un’enorme bocca. La facciata posteriore del Palazzo Spada, non era illuminata e si avvolgeva nel buio come in un mantello nero, dal quale erano ritagliate solo le bianche cornici di marmo delle finestre e l’ingresso della cucina.

Si diceva che questo palazzo del ‘600, avesse ospitato quelli della “congiura di Macchia”, quei nobili napoletani scampati al tentativo fallito di rivolta contro gli spagnoli, nel 1701.

Il silenzio tornò padrone a poco a poco, il rumore delle onde morbidamente infrante sugli scogli ricominciò a salire lungo le rocce dell’alto costone, portando con sé il profumo dell’acqua di mare che si miscelava, lungo la salita, agli odori aspri dei cespugli di mirto e dei capperi, arrivando sulla terrazza come un alito di ragazza.

La notte in un giardino di limoni inebria. Dicono che dalla “notte” di San Lorenzo in poi, quella tra il 14 e il 15 di agosto, sia la notte in cui si vedono nel cielo più stelle cadenti di tutte le notti dell’anno, perché salutano l’assunzione in cielo della Madonna. Quella notte tutte le stelle che cadevano, ed erano tante, sembravano tuffarsi nel mare senza spegnersi, rimanendo luminose sull’acqua di antracite. Stelle che trapuntavano come gioielli un drappo di velluto nero. Lo sguardo di Amedeo colse l’effetto delle lampare sul mare di notte, e sorrise pensando quanto era fuori moda la sua sensazione.

Gli passò per la mente una sola riflessione, mentre puliva il tavolino dal mozzicone e dalla cenere della sigaretta che aveva solo acceso e poi dimenticata sul bordo del tavolo; Gaetano aveva più di cinquant’anni, lui almeno nove di meno.

“Amedeo!”, si voltò con un sobbalzo, mentre la figura minuta di Rosanna sbucava da dietro l’albero d’ibiscus, che non entrava nel cono di luce del lampione. Il buio dello sfondo del mare, faceva risaltare il bianco dell’abito e il rosso vivo della collana di corallo che contornava il suo collo delicato.

Rosanna aveva conservato intatto l’aspetto di bambina minuta nella sagoma, incisa nei lineamenti come un cameo. I capelli neri lucenti, arrotolati sulla nuca, sembravano una conchiglia di ossidiana. Gli occhi neri, grandi, con folte sopracciglia ricordavano quelle delle antiche principesse egizie. Il naso piccolo con le narici disegnate, sensibili a ogni respiro, se ne percepiva la loro mobilità; la bocca, un pò imbronciata, come sempre, in quella luce sfumata, però, appariva un pò malinconica, e il rosso delle labbra scompariva troppo presto nell’ombra degli angoli della bocca; sembrava che mancasse qualcosa, forse un sorriso. “Non alzarti, resta qui, in cucina fa caldo, ti porto io qualcosa” disse sedendogli accanto.

“Grazie, ma non ho fame, più tardi mangerò i polipetti che mi ha preparato a pranzo zia Tatella, non voglio deluderla”.

“Zia Tatella si è ricordata di quello che ti piaceva più di ogni altra cosa e, quando ha saputo che avresti accettato l’invito a passare da noi Ferragosto, ha cominciato ad agitarsi perché non sapeva dove andare a prendere i polipetti freschi per te”. Ha telefonato a tutti i pescatori di Massa per trovarli; a Ferragosto chi vuoi che si metta a pescare polpi? Poi è uscita e dalla terrazza ha detto: “Se non trovo i polipetti per Amedeo, non torno”. “Rosanna, se non torno, digli che l’ho pensato sempre in tutti questi anni e che lo tengo nel cuore e non l’ho dimenticato”.  La buffa imitazione che fece Rosanna dell’anziana donna di casa che aveva cresciuto lei e servito i signori Spada da almeno quarantacinque anni, cancellò la piega amara dalla sua bocca restituendole gaiezza.

“Dai non sfottere” rispose Amedeo sorridendo, “figuriamoci se stasera non mangio i polipetti… zia Tatella per la delusione sarebbe capace di partire per la legione straniera”. Risero sereni, poi lei si alzò e guardandolo in silenzio per alcuni attimi disse “Torno in cucina”. La seguì con lo sguardo fino a che non fu ingoiata dalla bocca luminosa della cucina.

Nulla aveva cambiato la scioltezza del suo passo, l’eleganza dei suoi movimenti. Amedeo tornò a scrutare nel buio delle onde lontane e il palpito ritmato del faro sullo scoglio del Vervece, sembrò lanciargli messaggi antichissimi, sconosciuti per tutto l’universo.

Il lampione che illuminava il tavolino, aveva raccolto intorno a sè i voli disperati d’insetti, che, abbagliati da tanta luce, presto o tardi avrebbero finito per schiantarsi contro, com’era già capitato a molti. Tanti ancora ne volavano intorno scomposti, battendo sul paralume di ferro, nel bordo del quale tante piccole creature immobili senza vita avevano volato l’ultimo volo attratte inesorabilmente da quella stella di 60 volts.

“Professò” nel silenzio della limonaia, quella voce che chiamava, giunse come se provenisse da dietro alla sua testa. Non era un sussurro, ma profonda e morbida, però ugualmente inattesa. “Professore Serra, voi non andate a mangiare?” Amedeo rispose calmo: “Chi è?” alzandosi per guardare oltre l’ibiscus da cui era venuta Rosanna.

“Professò, sono Ernesto Faraone… non vi ricordate di me?” “Buonasera Ernesto, eravate coperto dall’albero, e poi qui è buio, sentivo la voce ma non vi vedevo, come state?”. Allungò la mano, ma, accorgendosi che il vecchio, seduto sul muretto, non allungava la sua, gli venne in mente chi era Ernesto Faraone.

Ernesto Faraone era cieco; tutti a Massa lo conoscevano perché era sempre seduto sul parapetto di tufo lungo i tornanti per giungere alla marina, lui da sempre suonava la fisarmonica e cantava stupendamente vecchie canzoni; viveva con le offerte dei turisti che passavano accanto a lui in auto per giungere al porto.

La sua mano gli sfiorò il braccio e lui la cercò deciso. Gliela strinse, mentre i suoi occhi coperti da lenti nere cercavano l’altezza giusta del volto di Amedeo. “Non mi ero accorto di voi, scusate, volete che vi porti un piatto di qualcosa?”

“No, no, non v’incomodate… la signora Rosanna ha detto che passa lei con i piatti e siccome ci stanno le melanzane imbottite, ha detto che me le conserva per dopo; accomodatevi, sedetevi”. Si spostò insieme alla fisarmonica che teneva ai suoi piedi facendogli spazio sul muretto.

Non aveva alcun bisogno di spostarsi, il muretto circondava tutto il terrazzo ma Amedeo non lo disse. Si sedette e fece scivolare il bastone di lato. “Professò, siccome non avevo sentito battere il vostro bastone sul brecciolino del vialetto, ho capito che siete rimasto seduto, che non siete andato dentro con gli altri, vi piace stare qua vero”? “È difficile stare lontano da Massa; dopo tanto tempo”. “Si professò, ma io volevo dire qui a palazzo Spada, prima qui ci stavano le piante di rose, lungo tutto il muretto, qua non ci si poteva proprio sedere, non c’era spazio, e che profumo di gelsomino quando si arrivava d’estate su questa terrazza. Nell’angolo vicino alla casa c’era una pianta di nespole dove facevano il nido i cardellini, e sotto, una panchina di ferro tutto lavorato, pesci, uccelli, piante, perfino le onde del mare con le barche, tutto in ferro professò. Io mi venivo a prendere il caffè quando la signora, la mamma di Rosanna, mi chiamava per qualche servizio, una imbasciata, una lettera da imbucare, non si scordava mai di farmi la regalìa, voi forse ve lo ricordate”.  Intercalava con pause e sorrisi quello che a lui sembrava un dialogo con un vecchio amico. “Siete venuto per la Madonna”? “Domani c’è la processione a mare, arrivano turisti da tutto il mondo” disse, girando la testa bianca lentamente ora verso l’altro, ora in direzione del palazzo.

“Si, certo, sto qua per la processione, ospite del dottor Sanseverino, ma mi trattengo poco”. “Vado via all’inizio della settimana prossima”.

“Professò, a voi piace andare a pesca di totani, è vero”? “E sono giusto dieci anni che avete venduto il “San Filippo”, il gozzo più bello della Lobra… ve lo ricordate il San Filippo, teneva la Madonna intagliata nella prora”.

“Certo che mi ricordo del “San Filippo”, era veramente una bella barca; un gozzo costruito a Sorrento, credo, oggi sarebbe un gozzo sorrentino degno di stare in un museo”.

“L’avevate dipinto tutto nero con il pagliuolo e le panche rosso fuoco, sull’asta di prua, aveva una campanella di bronzo” disse Ernesto, accarezzando la fisarmonica. “La campana di bronzo era quella originale, che feci restaurare insieme al gozzo”. Mi ricordo che l’ho comprata con il fasciame a pezzi, e con un grosso buco a poppa, e stava tirato a secco, per fortuna, sopra la scogliera della marina di Puolo. Per portarlo fino a Sorrento e per farlo restaurare ci volle il camion” rispose Amedeo.” Professò, il nome del “San Filippo” prima era Maria SS. della Lobra. È per questo che ci stava la Madonna intagliata nella prora, e stava proprio sopra alla linea dell’acqua. Quella, la Madonna, calmava tutte le onde del mare che arrivavano sulla coperta. Una barca di sette metri forte e bella quanto volete, ma aveva sempre bisogno di essere protetta. È molto difficile salvare una barca senza padrone. La Madonna la può proteggere dalla burrasca del mare, ma come fa a proteggerla dall’abbandono del proprietario? Il sole, la pioggia, i giochi dei bambini, e poi il vento delle mareggiate. Si sa che un gozzo si perde, marcisce… Professò, le barche marciscono sulla terra, e non dentro all’acqua”.

Quello che Ernesto diceva cominciò a incuriosire Amedeo, anzi un senso d’inquietudine s’impadroniva della sua anima. La voce di Ernesto, bassa e profonda, non si miscelava al brusio degli ospiti, rimaneva chiara e distaccata, e il significato delle sue parole dettagliavano cose che appartenevano a lui, alla sua vita, forse a lui stesso sconosciute. Arrivavano però alla sua mente come figure mascherate, aveva la sensazione che Ernesto alludesse ad altro, quelle parole gli aprivano una voragine sotto i piedi, lo spingevano a fare domande precise, richieste inopportune ad una persona che ricordava sempre ai margini dei suoi ricordi, mai essenziale.

Quel personaggio così impotente acquistava importanza spostandosi al centro del suo interesse. “Scusate Ernesto, ma come fate a conoscere tante cose di me, del “San Filippo”, della mia vita a Massa… noi due non ci siamo mai fermati a parlare, nè tanto meno sono così famoso che tutti conoscono tutto di me… scusate ma chi vi ha parlato di me?”. Ernesto agitò la sua bianca testa un pò ansioso, girandosi verso Amedeo, disse: “Professò, per carità di Dio, voi non dovete pensare che io mi occupo degli affari vostri, ma è che abbiamo avuto un amico in comune, il quale vi portava molto, diciamo così, rispetto, perché voi meritate, sì, sì, dovrebbero essere tutti come voi. Professò, a me mi manca la luce degli occhi, ma non mi manca la luce del cuore. La signora Rosanna lo sa, io la conosco da bambina, e Assunta, zia Tatella, me la portava nella carrozzina ed io cantavo una ninna nanna, una canzone allegra: Ernesto canta una canzoncina a nennella, diceva, e io cantavo. Dici una filastrocca, ed io la dicevo, e la creatura santa rideva e io mi sentivo col cuore pieno di contentezza. Per carità, professò, io mi faccio i fatti miei”.

Le sue parole aggiungevano mistero a misteri. Qual era il vero senso delle sue parole, quale vita aveva vissuto accanto ad Amedeo, senza che se ne accorgesse legando uomini, cose, luoghi, forse altro? Quale il filo segreto che aveva unito questi destini estranei, lontani nel tempo e nello spazio? “Scusatemi” – disse allora- “non intendevo offendervi, ma voi capirete, mi avete sorpreso con la storia del “San Filippo”, il proprietario che l’abbandonò, l’amico in comune che abbiamo…” – “che avevamo, professò!” – rispose Ernesto, serio “che avevamo. Pace all’anima sua, è scomparso, salute a noi, otto anni fa, e io gli ero molto affezionato”. “E chi era questa persona?”- disse Amedeo un pò imbarazzato.

“Ernesto, questa bottiglia di vino ve la portate, questa ve la bevete mentre cantate”. Così Gaetano esordì comparendo davanti ai due, alzando le braccia e mostrando due bottiglie di vino.

Era giunto fin lì camminando scalzo sul viale, con la sigaretta di lato alla bocca e un occhio chiuso, forse irritato dal fumo che gli saliva lungo la guancia. Dietro di lui, Renato, con un piatto in una mano, forchetta nell’altra e la bocca piena. Seguiva Ornella, con una bottiglia di vino e due bicchieri; in quella poca luce, i suoi capelli di fuoco riflettevano bagliori di braci covati sotto ceneri nere.

Ernesto, un pò sorpreso, non ebbe il tempo di rispondere. Agitava smarrito la sua testa candida e disse “Don Gaetano, grazie, ci voleva proprio un bel bicchiere di vino fresco, è tardi, ma fa ancora caldo”; allungò la mano, Ornella gli avvicinò un bicchiere, in cui Gaetano versò il vino, mentre Renato diceva: “Forza Ernesto, cominciate con una cosa allegra, ve la ricordate Villeggiatura a Capri?, quella che canta Murolo, come fa? Aspettate…, ah sì: sono stato un mese a Capri a villeggiare…” Renato canticchiò quei versi della canzone e subito Gaetano lo seguì, ritmando con movimenti della testa e borbottando qualche parola che a stento ricordava.

Gaetano non vedeva quando il bicchiere era colmo, ed Ernesto se ne accorse quando le sue dita si bagnarono: “Don Gaetano, attenzione, esce fuori, basta”. Gaetano alzò la bottiglia e intanto gli altri con i piatti tra le mani erano ritornati in terrazza.

Da lontano, cominciarono a incitare Ernesto perché cantasse. Gaetano disse: “Bevete, prendo io la fisarmonica, ci spostiamo più al centro, vicino ai gelsomini, così tutti vi vedono”.

Ernesto, sottobraccio a Gaetano, con il bicchiere in una mano che traboccava ad ogni passo, era seguito da Ornella e Renato; si avviarono nel vialetto che portava al centro della limonaia, dove i tavolini di ferro battuto erano già coperti di piatti, bicchieri e tovaglioli.

Amedeo tornò al suo tavolino sotto il lampione, seduto sulla sedia, accese una sigaretta mentre le note allegre uscivano dal mantice della fisarmonica di Ernesto e la sua voce limpida e profonda si attorcigliava guizzante, disperata, tra i rami neri degli alberi di limone. L’arrivo di Gaetano aveva interrotto il dialogo, e non c’era stata nessuna risposta alla domanda che ancora rimaneva sospesa tra il vuoto sulle onde e il muretto di mattoni, come appesa ai lunghi rami dell’ibiscus. Amedeo la vedeva lì sospesa mentre penzolava spinta dal vento della sua inquietudine.

Chi era questa persona che tanto lo “rispettava”, e quanto entrava nella sua vita? Non avrebbe avuto risposte per quella sera.

Ernesto adesso stava cantando un’antica e struggente canzone d’amore napoletana, era “canzone appassiunata”. Amedeo la conosceva bene; il ritornello diceva: “Te voglio bbene e tu me fai murì”.