– di Elvio Accardo –
L’aula Carducci era gremita di studenti, ma più che la folla fu il chiasso, la confusione di quell’assemblea che stancò Luisa.
Raccolse la borsa jeans poggiata sulla balaustra della gradinata e a spintoni uscì.
Nel corridoio fumoso e ingombro di banchi, i giovani chiacchieravano seduti per terra, qualcuno ancora sonnecchiava, stanco della terza notte di occupazione della facoltà di lettere.
Attraversò il corridoio, qualcuno la salutò con un cenno, svoltò l’angolo e la voce di suo fratello Lucio la raggiunse insieme alle note della sua chitarra in una dolcissima “Let it be”, cantata a bassa voce con il coro di altri amici che lei non riconobbe da li.
Nell’aula Pascoli dove suo fratello Lucio si esibiva, non più di una ventina di ragazzi seguivano interessati la canzone, sussurrandone in coro il ritornello, ondeggiando dolcemente, altri sembravano presi da quell’atmosfera intensamente intima e libera, e avvolti nell’ombra cupa delle finestre chiuse, si scambiavano tenerezze e sussurri. Luisa entrò nell’aula e subito una ragazza del piccolo coro, si sciolse dall’abbraccio di un giovane alto e con la barba rossiccia, e fece cenno di raggiungerla.
Le due ragazze si salutarono con un veloce abbraccio, Luisa disse: “Monica io non ho sigarette, perché non usciamo, arriviamo al bar a prenderle, e magari prendiamo anche un caffè e un cornetto, è da ieri che non mangio, adesso è quasi l’una ed io a casa non torno se non torna Lucio”. “No aspetta”, rispose Monica, “Ti voglio fare conoscere una persona. Lo vedi quello seduto sotto la finestra? Quello che canta da solo con gli occhi chiusi? Niente male vero? È il figlio della De Pertis, la docente di letteratura italiana. Sta al secondo anno, non lo conoscevo, ma da quand’è cominciata l’occupazione è sempre qui. Conosce tutte le canzoni che canta tuo fratello. Vieni che te lo presento.” “Io ho fame” rispose Luisa, “Seguimi,” disse Monica prendendola per mano e attraversando l’aula, mentre si spegnevano le note di Let it be e già Lucio attaccava “Imagine”.
“Giacomo svegliati! Apri gli occhi, guarda chi ti porto”. Monica disse questa frase sussurrandola all’orecchio del giovane che aprì gli occhi, non interrompendo la linea dei suoi pensieri. “Questa è Luisa Ruberti, la sorella di Lucio”. Giacomo raccolse in un lampo la sua attenzione, si alzò e stringendo la mano di Luisa disse “Ciao, non sapevo che Lucio avesse una sorella, ne sono lieto, e ti faccio i complimenti per la bravura di tuo fratello. È veramente forte! Canta e suona da Dio.”
“Grazie per i complimenti. A volte io, devota, gli porta la chitarra. Scusa, ma stavamo scendendo. Monica andiamo?”.
L’attimo d’imbarazzo raffreddò l’entusiasmo di Giacomo, ma Monica disse “Si vengo, noi andiamo al bar qua sotto. Perché non ci accompagni?” Giacomo con fare un po’ ansioso rispose: “Certo” e seguì le ragazze.
La piccola gaffe era dimenticata.
Al bar bevvero il caffè e mangiarono il cornetto seduti a un tavolino. Luisa non tardò ad accorgersi che Giacomo era carino, con i suoi lineamenti delicati, forse un poco sfuggenti, ma gli occhi scuri, tristi e profondi la colpirono. Anche i suoi modi, un poco affettati, molto lontano dai modi camerateschi dei suoi compagni, ma soprattutto compagni di suo fratello.
Quegli occhi lasciarono un segno che non tardò ad emergere nella mente di Luisa, Giacomo le piaceva.
La sua timidezza svegliava in lei una gran voglia di proteggerlo, sembrava delicato nella figura, anche un poco viziato, come un bimbo lasciato troppo a lungo solo.
Monica si accorse subito dall’interesse mostrato da Luisa e si congedò dicendo che l’aspettava il suo ragazzo, quello con la barba rossiccia. Salutò facendo l’occhietto.
Luisa e Giacomo rimasero soli, a poco a poco i loro pensieri divennero fitti, come i discorsi di chi ha molto da dire. Giacomo parlò della sua vita di figlio unico di genitori separati. Parlò della madre che pur essendo molto legata a lui, aveva comunque una vita propria dalla quale lui era escluso, ma in compenso godeva di grande libertà, come in quei giorni dell’occupazione, poiché la madre aveva impegni altrove e lui, sebbene fosse solo, sopravviveva egregiamente tra pizzerie e casa della nonna. Tutto il resto del tempo poteva dedicarlo a ciò che gli sembrava più interessante.
Luisa si scoprì di meno, le piaceva ascoltare e seguì i movimenti di Giacomo, che a volte mostravano inquietudine, a volte imbarazzo. Quando parlava della mamma si illuminava e anche gli occhi tristi si accendevano di dolcezza.
Decisero di ritornare all’università e sulla lunga e ampia scalinata, proprio sul piano dove si apriva la vetrata della segreteria Luisa si fermò e disse: “Stasera dormi su con gli occupanti?” “No, non credo, e tu?”, “Io torno a casa stasera, abbiamo fatto i turni. Dormiremo domani sera, a casa ci aspettano, è l’onomastico di mia madre. A cena staremo tutti insieme”. “Giacomo disse: “Anche Lucio è naturalmente con voi. Come faranno gli altri senza le sue canzoni? Comunque anche io vado a casa. Una doccia e stasera una pizza, poi torno a casa. In questi giorni, tra manifestazioni, occupazione, assemblee, discorsi, discussioni, mi sento stanco e annoiato, salgo con te. Saluto e me ne vado”.
Giacomo prese la mano di Luisa e disse: “Ti vedo domani?” “Certo” rispose Luisa lasciando la sua mano in quella di Giacomo, poi appoggiandosi alla vetrata aggiunse “Senti perché non passi da noi dopo cena? Ti farò conoscere Ruben, il cane di Lucio, e vedrai che ti sorprenderà.” “Beh… Se pensi che non dia fastidio… vengo volentieri. Magari porto dei fiori per tua madre”, “No, non serve. Dopo cena i miei vanno a teatro, l’ha chiesto come regalo a mio padre.”
Luisa salì la rampa della facoltà di lettere senza sentire il suo peso.
Non sentì neanche il rumore dei suoi passi sui gradini e neppure Monica che la salutava mentre scendeva insieme al barbuto.
Lucio discuteva con un gruppo di amici, all’ingresso dell’aula Carducci, dove l’assemblea era ormai alla fine, e un gruppo di giovani usciva senza guardarsi intorno. Qualche ragazzo ripuliva il corridoio dalle cartacce e dalle bottigliette di birra riponendole in un sacchetto bianco e rosso con il nome di un supermercato stampato su.
Luisa e Giacomo si fermarono con Lucio, il quale disse di aver lasciato la chitarra in aula. Giacomo subito si offrì di andare a prenderla, Lucio gli raccomandò di metterla nel fodero.
Rimasti soli, Lucio pregò Luisa di trattenersi ancora un poco, cosi per controllare che non entrassero estranei per la notte, mentre lui passava a prendere i fiori per la mamma.
Giacomo arrivò, e Lucio salutò Luisa e Giacomo il quale disse. “Scendo con te, io vado a casa”. Poi si voltò e disse a Luisa: “A stasera”.
Erano quasi le dieci, quando Giacomo arrivò. A Luisa batteva il cuore già da prima e quando l’accolse alla porta, gli tenne stretta la mano fino alla sala, dove Lucio nella penombra di una lampada era seduto al piano e suonava, mentre il ragazzo di Monica, quello con la barba rossa, alla chitarra, accompagnava la voce di Lucio, in un samba molto coinvolgente.
Tutti salutarono Giacomo con cenni, Monica gli diede un fuggevole bacio sulla guancia.
Un’altra ragazza seduta accanto al piano, ritmava con una bacchetta su una scatola di legno, producendo un suono secco e faceva da contro canto a Lucio che suonando batteva forte il piede sul pavimento.
Luisa disse: “Quella che canta con Lucio è Titti, la sua ragazza, lei sta a biologia, è appassionata di samba e canta bene”.
Sedettero sul divano accanto a Monica. “Vuoi bere qualcosa?” Chiese Luisa mostrandogli il tavolino basso pieno di bottiglie. “Ci penso io” Rispose Giacomo, prendendo un bicchiere e versandosi una ricca dose di scotch.
Giacomo bevve e tenne la mano di Luisa tutta la serata, si sentì quasi subito fuori posto, ma il liquore gli diede l’alibi ovattato che gli serviva.
Partecipò ai cori, ritmò col piede per tutte le canzoni che Lucio cantò, si alzò e ballò da solo, attirando l’attenzione di tutti, “La ragazza di Ipanema”.
Applaudirono e lui ballò ancora, esibendo il meglio di ciò che la mamma gli aveva insegnato fin da piccolo, ballando con lui da provetta maestra.
Luisa eccitata dalla sua bravura, invitata da lui, danzò anche lei, rompendo il cerchio di attenzione che sempre si chiudeva intorno ai musicisti e ballò divertendosi e spesso tentò di imitare i gesti e i passi di Giacomo, che slacciata la sua camicia e tirata fuori dai pantaloni, metteva in mostra il suo bel corpo asciutto e glabro.
La serata arrivò al culmine quando entrò il cane Ruben, il quale preso da non si sa quale turbamento, andò vicino al piano e con ululati un poco lugubri e un po’ comici, si unì alle voci, e continuò così fino a quando Luisa si decise a riportarlo fuori dicendo rivolto a Giacomo, il quale ballando e bevendo si sentiva lontano, in un mondo solo suo. “Te l’avevo detto che ti avrebbe sorpreso”.
Fu una bella serata per tutti, Lucio se ne andò prima, dicendo di dover accompagnare Titti a casa, poi Monica e il suo ragazzo che si chiamava Luigi, si alzarono e cominciarono a raccogliere i piatti e i tovaglioli, quando Luisa disse di non preoccuparsene perché avrebbe pulito lei. Monica salutò Luisa con un bacio e Luigi già era sulla porta quando Giacomo, ricomponendosi chiese se poteva approfittare di un passaggio. Luigi disse che lo avrebbe aspettato giù.
Luisa rimasta sola con Giacomo, gli si avvicinò e lo baciò, fu un bacio frettoloso, poi caldo, poi suadente, lungo che costrinse Giacomo a risponderle socchiudendo le labbra e abbracciandola stretta.
Sentirsi stretto a quella donna, sentire il suo alito e il sapore della sua saliva nella bocca, fu sconvolgente e nemmeno l’alcol frenò la prima ripulsa che provò a quel contatto, ma il gioco continuò e a poco a poco la sua bocca si rilassò e le lingue si mossero lente nelle bocche, il suo cervello si adattò e provò anche piacere a quel bacio per lui lontano ed imprevisto. “Ciao” lei disse “Domani vengo più tardi.” E rimase sulla soglia a lungo, e mentre l’ascensore lo portava giù pensò che non poteva più fare a meno di Giacomo.
Giacomo aprì la porta di casa sua senza nulla nel cervello, vuoto, solo alcuni dettagli emergevano dal limbo della sua coscienza: Lucio che cantava, il suo piede che batteva sul pavimento, il ritmo sensuale di quella danza e ancora le mani di Lucio che correvano sui tasti e i suoi denti e la lingua che compariva e scompariva dalla bocca quando cantava la la la la.
Poi il cane, uno stupido cane che aveva rapito con i suoi ululati l’attenzione di Lucio mentre lui ballava.
Si buttò sul letto stanco senza spogliarsi, cercando ristoro nel sonno che non arrivò, neanche dopo il primo dormiveglia che lo rese nervoso e ipercritico anche se l’alcol offuscava i suoi pensieri.
SI alzò e andò in cucina a prendere un bicchiere d’acqua e un’aspirina, si avviò per il corridoio e attraversò tutto l’appartamento, arrivando dall’altro alto della casa dove c’era lo studio di sua madre, si sedette alla scrivania.
Camminare al buio, seguendo solo la memoria intima dell’abitudine, era il suo forte. Individuò la piccola lampada sul tavolo e l’accese. Pile di fascicoli, giornali, una sua foto abbracciato a sua madre erano comparsi come per incanto. Ingoiò l’aspirina e l’acqua fresca lo fece sentire meglio.
L’immagine di Lucio gli tornò nella mente, era il suo tormento da quando aveva messo piede nelle aule della facoltà occupata. Gli tornava nel cervello procurandogli un’intensa emozione, fatta di dolcezza e di dolore, ogni suo sguardo lo penetrava fino all’intimo, rendendolo inerme, indifeso. Aveva cominciato a immaginare Lucio in sua compagnia mentre gli mostrava le sue cose, quelle che non aveva mai mostrato a nessuno, come i suoi versi, le poesie scritte pensando alla sua natura così difficile da capire e da contenere. Avrebbe chiesto a Lucio di poter scrivere versi per lui, così avrebbe potuto cantarli, non avrebbe concepito consolazione diversa se non quella di stargli accanto, seguirlo, carezzarlo, toccargli il bel viso dandogli dolcezza, evaporando la sua solitudine nella quale si era trovato da quel giorno.
Era sicuro che Lucio non lo avrebbe deriso, lo avrebbe capito invece e a poco a poco lo avrebbe protetto con i suoi sentimenti, con le sue attenzioni, non lo avrebbe deluso mai e lui avrebbe trovato conforto, coraggio e poi amore, nel quale avrebbe voluto affogare tutte le sue incertezze, tutte le sue paure che da tempo si portava dentro e che non aveva mai confessato a nessuno. Lucio rappresentava adesso la sua condanna o la sua salvezza. Era la sua condanna se continuava a dare se stesso a Titti, quella che Luisa chiamava “la sua fidanzata”, una donna uguale alle altre, anonima. Qualunque altra ragazza avrebbe potuto sostituirla in un letto, e appariva senza anima. Poteva essere la salvezza invece, se avesse avuto il tempo di farsi conoscere meglio, di dargli a poco a poco ciò che Titti mai avrebbe potuto dargli, l’amore sublime della dedizione.
Prese una matita e cominciò a scrivere su un foglio del notes aperto sul tavolo: Lucio io ti amo, sono tuo.
Lesse e strappò il foglio, provò paura mista a vergogna, poi accese una delle sigarette di sua madre che stavano lì tra il telefono e il posacenere e passò qualche minuto sentendo crescere dentro di se un languore profondo che accelerò i battiti del suo cuore.
Afferrò di nuovo la matita e scrisse sul notes marcando profondamente la scrittura: Ti amo, ti amo fino al punto di offrirti il mio corpo come tu lo vuoi, in tutti i modi, sono perduta, non ho più nulla che frena i miei pensieri, amami, amami come io sento di amarti, sono tua, ti dò i miei pensieri e la mia anima per sempre.
Questa volta non strappò subito i fogli, rilesse più volte e s’accorse che aveva scritto quelle frasi al femminile, come se dare voce a quello che così intensamente provava, dovesse essere pronunciato solo da una donna; e lui non ne provò nessuna vergogna, gli sembrò solamente giusto.
Dentro di sé si affacciava prepotente il desiderio, il piacere psicologico e fisico che il ricordo di Lucio gli provocava, si sentiva diverso, lucidamente forte di pensare a Lucio come se fosse una donna e sembrava più facile, si sentiva più giustificato, era vero, prepotentemente vero, senza alibi né giustificazioni.
Queste considerazioni che emersero inattese, durarono il tempo di una sigaretta.
Ricordò i giochi che faceva con la mamma parlando da femmina, usando a meraviglia il falsetto. Da sempre lo usava per gioco, rispondendo al telefono fingendosi un’amica della mamma o la cameriera, riusciva ad ingannare tutti, anche sua madre.
Quella voce così acuta, così surreale, così stupendamente utilizzata, ora gli uscì spontanea, naturale, non suonò falsa né ridicola. Gli sembrò che venisse da quella parte della sua anima così a lungo zittita e imbavagliata. Era proprio quella la voce della donna amante che dentro la sua anima cercava il coraggio di parlare, di raccontarsi senza nessuna paura e senza l’ipocrisia del suo sesso apparente.
E parlò, parlò sentendo finalmente indebolita quell’altra parte della sua anima che l’aveva costretto a mentire, a giocare, a fingere un gioco che solo così poteva giustificarsi. E allora parlò. Gridò ad alta voce il suo tormento, gridò la tenerezza dei suoi sentimenti. La tristezza della sua solitudine e così lucidamente, espresse le sottili trame per la sua passione per Lucio.
Lacrime calde irruppero ai suoi occhi, e sentì feroce la volontà di comunicare all’altro “da sé” ciò che quella voce contraffatta a volte dolcissima, a volte tragica esprimeva. Il desiderio di rivelare a se stesso la brama che nutriva.
Pigiò i numeri del telefono che corrispondevano all’altro apparecchio posto in camera da letto della mamma all’altro capo del grande appartamento.
Al quinto squillo la sua voce mascolina, rispose dalla registrazione della segreteria telefonica: “Casa De Pertis, io sono Giacomo, sono momentaneamente assente, lasciate un messaggio dopo il beep”. L’emozione pervase ogni angolo della sua persona, era la prima volta che parlava con la parte di se stesso offerta al mondo. Dopo il beep continuò: “Prima di chiunque altro, io sono te Giacomo, è dolcissimo dirlo ma anche terribile, e voglio proprio te, te amore mio, a cui dedico il mio passato, il mio presente e il mio futuro. Giacomo, dolcissimo compagno mio, io sarò sempre in te, vivremo per sempre il nostro rapporto così intimo, così unico, ma lasciami gridare la mia disperazione, il mio dolore, non posso più e non voglio più nascondermi, rifiutando quest’altra mia natura tanto fragile e tanto vera. Scoprendo questa mia violenta passione per Lucio, io mi condanno a perdermi in un oceano di solitudine, non voglio allontanarmi da te che sei me, tanto quanto io sono te.
La voce in falsetto così femminile e così vibrante di Giacomo si incrinò, il pianto lo interruppe e dopo un silenzio fatto di sospiri riprese: “Non posso fare a meno di desiderare il tuo corpo, la tua bocca, le tue mani che mi sfiorano, che mi carezzano, che mi consolano. Giacomo… Perdonami se puoi”.
Posò la cornetta con le mani tremanti e si riposò sullo schienale della poltrona, lentamente strappò il foglio del notes e lo ridusse in mille frammenti che gettò nel cestino.
Lucido, con fare gelido, con gesti misurati e lenti appartenenti ad un’altra persona, scrisse su un nuovo foglio del notes: “Sei solo una lurida troia, questa tua vocina falsa e impudica mi disgusta, non puoi tradirmi chiedendo anche il mio perdono. Anch’io non posso lasciarti lo sai, noi abbiamo un solo destino, una sola anima, e non è divisibile, ma tu adesso mi fai schifo ti posso solo dare il mio disprezzo.”
Un lungo e tormentoso silenzio invase lo studio, i rumori della strada erano scomparsi, e un filo di fumo opalino di una sigaretta lasciata sul posacenere di cristallo, ancora saliva verso il soffitto Giacomo si alzò, svuotato, accese un’altra sigaretta, passeggiò per la stanza e si fermò a guardare dalla finestra il traffico notturno della strada ormai quasi assente. Lentamente una fredda sensazione gli saliva nella mente, invadendo il silenzio dei suoi pensieri, era rabbia, un’acuta resistenza opposta a quel lascivo vergognoso denudarsi della sua anima.
In preda ad una furia irreale scalciò la poltrona della scrivania e nervosamente prese il foglio del notes su cui aveva scritto l’ultima frase, scagliò il notes tra i rami del ficus sotto la finestra, e velocemente mise una cassetta presa a caso dal cassetto della scrivania e la mise nel registratore della segreteria del telefono.
Ritornò correndo in quel lungo corridoio buio fino in camera da letto della mamma dove l’altro telefono era posto sul comodino a fianco al letto, con furia pigiò il tasto d’ascolto, e ascoltò quell’assurda registrazione fatta poco prima nello studio, gli sembrò oscena, si alzò e camminando tra il letto e la porta, cominciò ad inveire contro quelle parole che gli sembravano adesso di un’altra persona, di una donna che cercava un suo perdono dopo averlo infamato con un altro uomo. Con furia si spogliò, e Improvvisamente cominciò a parlare ad alta voce con toni offesi, addolorati e senza porsi domande, si fermò davanti al grande specchio dell’armadio, che rifletteva la sua figura nuda, stravolta, ma ipnotica davanti alla quale indugiò, rapito dal furore che lo animava.
Disse rivolto alla interlocutrice della registrazione, fissando il suo volto riflesso nello specchio, che se voleva un uomo per scaldarla c’era lui, solo lui, unicamente lui, di cui, sempre lo stesso uomo, si era innamorato anche Luisa, lui l’aveva baciata e se avesse voluto l’avrebbe portato a letto.
La voce di Giacomo rimbombava sulle pareti bianche rese rosate dalla lampada del comodino della camera da letto, mentre la sua rabbia saliva, la sua voce diventava più aggressiva, forte, graffiante, sentiva che un feroce litigio sarebbe arrivato proprio con quella donnetta tutta piena di smancerie e smanie che lui conosceva benissimo e che aveva avuto la faccia tosta di telefonare.
La sua immagine scomparve dal grande specchio, e sedette sul letto, compose quindi nervosamente il numero dello studio della mamma dall’altro lato dell’appartamento, e gli sembrò di udirne gli squilli venire dal corridoio. Dopo cinque trilli il registratore partì, una vocina acuta che sembrava proprio di donna, disse: “Sono momentaneamente assente, lasciate un messaggio dopo il beep” e dopo il beep Giacomo disse “Ascoltami bene, amore mio, non posso perderti permettendoti di andare a letto con un altro. Tu sei mia, solo mia, nessuno potrà mai prendere il mio posto nella tua anima come nessun’altra prenderà il tuo posto nella mia, ma facendomi questo, ti odierò per sempre, non puoi e non devi pensare ad un altro uomo, sono io l’unico uomo, il solo tuo uomo, le parole e i tuoi pensieri sono quelli di una puttana, di una troia da strada, mi fai schifo, disprezzo la tua debolezza. Cosa vuoi? Sesso? Non ti basto più? Vuoi tradirmi adesso? E domani? Tu sei dentro di me, io sono dentro di te. Possiamo amarci oppure odiarci per sempre, ma non possiamo vivere separati. Io non voglio la tua disperazione, mi fai solo ribrezzo, sappi che il mio disprezzo non ti darà quiete, la mia rabbia ti soffocherà, il mio odio ti tormenterà”.
Giacomo trattenne la cornetta chiudendo la comunicazione con l’altra mano. Sfinito lentamente posò la cornetta e si sdraiò sul letto, il profumo di sua madre lo penetrò appena poggiò la testa sul cuscino, seguendo la scia sensuale di quell’odore, si girò affondando la faccia nel biancore della federa del cuscino e pensò che doveva cancellare quella sua vocina registrata che invitava la gente a lasciare un messaggio dopo il beep. Doveva smetterla di fare scherzi telefonici. Di colpo si addormentò.