– di Elvio Accardo –
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Il cane allungò freneticamente la testa e annusò rumorosamente il cappuccio blu. “Questo è l’assassino della tua piccola padrona, a cui è stata tolta la possibilità di amarti.”. quel cappuccio casualmente introdotto nello zaino di Caterina trasformò da quel momento il suo trascinarsi in una frenetica voglia di capire. Come poteva trovare l’assassino? In quale maniera poteva utilizzare quella traccia, o qualunque altra cosa in suo possesso, per raggiungere il suo scopo? Aveva la certezza di avere tutti gli elementi per procedere verso questo suo obiettivo.
La sua ansia trasformava i suoi gesti e i suoi pensieri in un confuso alzarsi e risedersi sul divano, un entrare e uscire dal buio della notte alla luce del salone, illuminato dalla lampada del suo letto.
Sabù stanco di quel nervosismo, si accucciò con il muso tra le zampe imitando perfettamente un cane che dorme. Fu la lettura del libretto che l’allevatore di setter aveva mandato insieme ai documenti del cane, ad aprire a poco a poco la mente di Valerio. Nel terzo ed ultimo capitolo, dove l’autore aveva chiarito quanto fosse importante educare ed addestrare un cane, citò un certo dott. Lawrence Myers direttore aggiunto del centro di addestramento cinofilo dell’università di Auburn-Alabama, il quale spiegava che il cane ha una soglia di sensibilità percettiva che va da dieci parti per bilione, a dieci parti per quadrilione, cifre incredibili che nessuno è abituato a sentire. Concludeva che qualunque cane, a prescindere dalla razza, attraverso un condizionamento appropriato, può trasformarsi in docile, fedele e affettuoso compagno, oppure in feroce e pericoloso assassino, dipende tutto da una semplice formula del premio o della punizione. In pratica, un cane associa facilmente l’odore a un premio, il cibo, oppure ad una punizione la fame. Rilesse più volte il terzo capitolo e nulla frenò i lampi che la sua mente produceva quando arrivò alla conclusione che lui stesso, utilizzando quel meccanismo, mettendo in pratica quanto era appena accennato in quelle parole, poteva diventare colui che avrebbe restituito pace a sua figlia, mettendo insieme e mettendo in pratica gli elementi che stavano davanti a lui, senza cercare altrove, senza muoversi da quel posto, e senza l’aiuto di nessuno, la sua mano avrebbe punito l’assassino, semplicemente cercando un’arma micidiale che avrebbe colpito senza contare il tempo e senza pensare al luogo. Sabù sarebbe diventata quell’arma, le sue zanne sarebbero diventati i suoi coltelli affilati, le mascelle la morsa che lo avrebbero soffocato facendogli ingoiare il sangue, quei potenti muscoli sarebbero diventate molle d’acciaio che niente avrebbero fermato perchè, sarebbero scattate automaticamente dall’ombra, inatteso e mortale. La terribile idea raggiunse la sua massima chiarezza alle prime luci del giorno, Valerio sembrò febbricitante, aveva passato la notte ad elaborare i modi possibili per raggiungere il condizionamento di cui parlava Myers. Doveva solo applicare nella maniera più idonea la serie di punizioni e di coercizioni con cui avrebbe raggiunto il suo scopo. La mente di Valerio cominciò a rifiutare l’idea della sofferenza arrecata al cane, lo considerava solo un mezzo, escludeva che il destinatario di quegli orrendi progetti potesse avere un valore, se ne avesse avuto uno, era un valore condiviso con lui, era un diritto antico, primordiale. Quello di infliggere una pena uguale all’offesa ricevuta. La morte di quel vile assassino era solo il giusto prezzo da pagare per la morte di Caterina, e lui non avrebbe risparmiato nulla, anzi Sabù, per lui rappresentava un segno che il destino aveva messo davanti a lui per compiere questo grande atto d’amore e d’equilibrio.
Seguirono giorni terribili, il cane fu rinchiuso in uno stretto e angusto cubicolo che serviva alle bombole di gas di riserva, buio e fetido. Ogni giorno, Valerio legava il cane al manubrio del tapis roulant che aveva comprato per sé, e lo costringeva a correre per ore, mentre lui nascosto in casa osservava dalla finestra. Valerio aveva legato con una corda un vecchio copertone ad un albero, e dopo quella snervante corsa, lo sollevava da terra, costringendolo a mordere il copertone, al quale doveva rimanere appeso, e se si lasciava, cadeva malamente procurandosi ecchimosi ed escoriazioni. Allora Valerio lo riappendeva a quel copertone fino a quando Sabù schiumando dalla bocca, non cadeva sfinito, incapace di tenersi ancora appeso.
Questo però rinforzava le sue mascelle, sulle quali Valerio contava più di tutto. Sabù dopo pochi giorni di questo trattamento, divenne irritabile e cominciò a ringhiare forte a qualunque ombra, il cibo divenne sempre più raro, ed era rappresentato esclusivamente da qualche pezzo di carne cruda. Il lunedì mattina, a sei giorni dalla partenza di Rosa, Peppe e Grazioso, il telefono squillò. Era il maresciallo Guarino dell’arma dei carabinieri, prima si informò della salute di Valerio, e sentito che si era ripreso velocemente, gli disse che avrebbe mandato una volante a prelevarlo, per potergli parlare.
Dopo pochi minuti la volante in un polverone secco di terra arida e assolata, si fermò al cancello, Valerio aveva rimesso il cane nello sgabuzzino che al sole di luglio diventava un forno, e si presentò al brigadiere scusandosi del suo stato un po’ trascurato, ma si sa che in campagna si finisce sempre per impegnarsi in lavoretti non sempre puliti.
Il maresciallo accolse Valerio con un gran sorriso cordiale, che mettevano in risalto i baffi grigi e la testa tozza di un uomo abituato alla gentilezza dovuta al ruolo, non formale, ma neanche disinvolto.
Valerio si sedette su una sedia di panno nero, dotata di rotelline, che sembrava non fermarsi mai ad ogni piccolo spostamento del corpo. Il maresciallo chiese a Valerio se ricordava tutto di quel “giorno” e con quanta chiarezza, Valerio rispose che dopo l’incidente aveva avuto qualche amnesia dovuta al trauma, ma che in seguito aveva riacquistato con lucidità la memoria degli avvenimenti. Il maresciallo allora dopo un attimo di silenzio disse: “Venga con me”. Lo condusse in una stanzetta attigua, attraverso il corridoio, una stanzetta buia dove un forte odore di caffè riempì le narici, dopo aver chiuso la porta, il maresciallo spostò una corta tenda che scoprì un vetro grande quanto una mezza finestra, dall’altro, c’erano due carabinieri in divisa che chiacchieravano con due individui seduti ad un tavolo.
“Scusi sa, ma delle volte la sorpresa agisce meglio sulla memoria. Ritiene di riconoscere tra quei due, l’uomo che colpì sua figlia?”. Le tempie di Valerio cominciarono a pulsare a ritmo disordinato, dormiva poco, e quando si avvicinò alla finestra piccole particelle nere, come moschine, attraversarono il campo visivo dei suoi occhi arrossati. Si sforzò per mettere bene a fuoco i due, mentre sentiva i battiti del suo cuore bombardargli le orecchie, erano due giovani in maglietta e jeans, non sentiva la loro voce, uno dei due, quello un po’ più giovane rideva e si dondolava sulla sedia, l’altro con un’aria assonnata era in piedi e diceva qualcosa ai carabinieri. Li osservò a lungo, quello più giovane si alzò e si avvicinò ai carabinieri chiedendo una sigaretta, uno dei due carabinieri prese la sedia e la spostò contro il muro, mentre l’altro gli negava la sigaretta e li invitava a spostarsi verso la scrivania di fronte e riempire alcuni moduli. “Ricorda qualcosa? Riconosce qualcuno dei due? Sa, lei è l’unico che ha visto l’assassino a volto scoperto, il tabaccaio ferito è caduto dietro al banco e ricorda che aveva qualcosa che gli copriva il volto, ma quei pochi che lo hanno visto scappare con il motorino di sua figlia, non ricordano che avesse il volto coperto, e noi riteniamo che il tabaccaio colpito alle spalle, non abbia proprio visto il rapinatore entrare, signor Massa, questi sono due delinquenti abituali, sono spacciatori e rapinatori e a loro carico ci sta abbastanza per poterli vedere in carcere per molto tempo, ma sa com’è, le nostre leggi e tutti i suoi inghippi e ritardi, non ci consentono di metterli dove meritano, e quindi senza un riconoscimento sicuro, rischiamo di vederli ancora per anni nel parco comunale, dove si radunano i giovani di sera, a spacciare di tutto, e a rapinare coppiette, come se non bastassero i locali delinquenti, questi vengono da punti opposti d’Italia, quello più grosso è veneto e l’altro è calabrese, in questa città non se ne può più.
Valerio senza voltarsi rispose: “No, non riconosco nessuno dei due, mi dispiace, ma non posso accusare senza certezza, però ricordo che era a volto scoperto”. “Grazie signor Massa, vuol dire che dobbiamo rilasciarli ancora una volta, ma se con calma dovesse ricordare meglio, a noi basta una telefonata e li andiamo a prelevare al parco comunale. Noi siamo convinti che questi due sono i più pericolosi presenti sul territorio, ma purtroppo dobbiamo andarci piano”.
I dubbi di Valerio erano reali, non se la sentiva di accusare uno dei due, anche se qualcosa di quello che aveva detto il maresciallo lo aveva messo in grande agitazione. Sì, uno dei due poteva essere l’assassino, quello piccolo, più giovane, aveva la sensazione di riconoscerlo mentre si allontanava sul motorino pochi attimi prima di essere investito. Ma c’era ancora un punto nel discorso del maresciallo che lo teneva in forte ansia, i due individui non erano della zona, ma di fuori, uno veneto l’altro calabrese, quindi con accenti molto diversi, la loro origine era stampata in maniera indelebile nella loro voce, le inflessioni originali, i dialetti, i toni sono pressoché impossibili da cancellare. Si riconoscono sempre anche in poche frasi o parole, ecco cosa c’era nella mente di Valerio quando ritornò nell’assolata casa di campagna. Prese dal ripostiglio i suoi apparecchi di registrazione e li pose sul tavolo. Un grosso registratore Revox con grosse bobine di nastro magnetico, collegato ad uno strumento pieno di manopole, segnali e quadranti dove sensibilissimi aghi si muovevano rapidi, uno strumento questo che gli aveva permesso nella sua carriera di musicista, di pulire fruscii, livellare suoni, selezionare note, correggere ritmi e tempi, uno strumento prezioso, che aveva aiutato la sua produzione musicale, e riposto in quella casa quando aveva cominciato a lavorare a Roma. Portò sul tavolo lo zaino rosso, e mentre si sedeva, sentì il cane abbaiare, poi, guaire, come se gli chiedesse di uscire da quella angusta prigione e correre fuori, giocare, vivere. Valerio uscì e andò al casotto delle bombole, aprì la porticina, mentre un abbagliante luce entrava illuminando il cane che scodinzolò incassando la testa tra le spalle, Valerio lo legò e lo portò sul tapis roulant agganciando il guinzaglio al manubrio, poi avviò il rullo e Sabù cominciò a camminare, ma il tappeto era più veloce e il cane ruzzolò fuori tenuto dal guinzaglio e rischiando di soffocare, ma Valerio subito lo rimise su, e riavviò il tappeto prima lentamente, poi più velocemente, così Sabù adattò il suo rapido trotto alla velocità del rullo. Valerio rientrò e svuotò lo zaino rosso, riprese il piccolo registratore di Caterina estraendone la cassetta che pose in un cassetto del suo apparecchio, lo avviò e le due grosse bobine di nastro cominciarono a girare velocemente, la voce di Caterina che recitava “La vita è sogno”, le frasi dell’omicida, i sospiri, i rumori, furono trasferiti all’altro nastro del Revox. Cominciò un lungo lavoro tecnico di pulizia a partire dai fruscii e i rumori di fondo, quelli delle auto, poi isolò le frasi dell’assassino rallentandole e leggendone l’andamento, poi alla fine del suo lavoro la frase che aveva analizzato era, sì, quella che aveva già ascoltata decine di volte, ma era squillante e netta in ogni suo suono ed era una frase che solo uno dei due avrebbe potuto pronunciare, la parola “t’uccido” adesso era “t’accidi” quella che avrebbe pronunciato un siciliano, o un calabrese.
L’assassino di Caterina era quel giovane che aveva chiesto la sigaretta al carabiniere, era quello che aveva visto ridere con il suo compagno nell’ufficio del maresciallo. Una forte eccitazione s’impossessò di Valerio, come una febbre lo rodeva nella mente, Sabù al limite del collasso, con la lingua di fuori ansimava sul tapis roulant. Prese il cappuccio blu e si avvicinò al cane e avvicinandoglielo al muso disse: “questo è il tuo uomo”. I giorni che seguirono furono giorni d’angoscia, Sabù continuò a mangiare raramente, ma solo dei polli vivi che Valerio comprò al mercato del sabato in un paese vicino, guidando la sua auto con il piede della gamba operata gonfio e dolorante per l’eccessivo uso, infatti, non esisteva riposo né per lui né per il cane che per mangiare, e gli capitava solo alcune volte la settimana, era costretto a stare in una fossa profonda, che serviva da pacciamatoio per i fiori di Rosa, e lì che Valerio lanciava una gallina viva, che Sabù sbranava in poco tempo azzannandola con rabbia facendo schizzare sangue ovunque in quello stretto spazio. Ma il massimo della crudeltà era raggiunta la notte, il cane sfinito dalle tremende vessazioni diurne, tornava al suo casotto rovente e legato cadeva in un sonno comatoso poi Valerio dopo poche ore con un robusto sacco di juta, nel quale introduceva il cappuccio blu, saltava addosso al cane e lestamente lo introduceva nel sacco al buio, il cane si trovava così l’unico odore di quel cappuccio blu che gli impregnava le narici, prim’ancora dell’acre odore della iuta, che invece serviva per coprire l’odore di Valerio. Così Sabù veniva trascinato fuori col cuore a mille, non dominando più lo spavento che si tramutava in rabbia feroce quando Valerio cominciava a picchiare sul sacco chiuso con una robusta e corta canna di bambù che produceva rumori sordi o secchi quando colpiva parti molli o ossa del cane. Dopo le prime notti, il cane a quell’infame trattamento cominciò a reagire al dolore con un ringhio profondo, scaturito dai polmoni doloranti, dalle carni livide dai colpi, il suo sangue, che a volte qualche colpo mal dato usciva dalla bocca, si mischiava alla bava creandogli un’orrenda maschera selvaggia, che trasformava quell’animale in una belva piena di rancore, e quando gli riusciva, nel caotico spazio di un sacco chiuso, di afferrare quel cappuccio, lo mordeva forte, insanguinandolo, e in quell’infernale piccola orrenda prigione, Sabù lasciava andare la sua bollente orina, che non più trattenuta schizzava ad ogni sua disordinata giravolta e man mano, i colpi finivano per procurargli sempre meno dolore, come se il suo cervello potesse surrogare e conservare tutto il suo tormento, conservarlo per scatenarla in tutta la sua micidiale potenza ovunque avesse risentito quell’odore che adesso gli riempiva le narici e che lui riteneva colpevole del suo immenso dolore. Ma l’idea di Valerio non si fermava a quella tortura notturna, fatta di colpi ciechi su un sacco ringhiante, ma accendeva il registratore, che collocava nel luogo dove trascinava il sacco, e la frase dell’assassino risuonava infinite volte gelida e rabbiosa, ripetendo le minacce, la concitazione e le parole perdevano in quell’infernale girone di sofferenza, il significato proprio, diventando onde di dolore che si imprimevano nel cervello di Sabù come un marchio rovente, collegato direttamente all’odore del cappuccio al dolore e all’impotenza contro il suo nemico. Valerio in quelle serate di luglio, era andato più volte al parco comunale, e aveva rivisto quel giovane, lo aveva osservato silenziosamente, evitando ogni incontro, l’odio del primo giorno s’era trasformato in fredda analisi dei suoi movimenti, la panchina dove incontrava gli amici, l’orario in cui arrivava, quasi sempre era in compagnia del veneto, poi verso mezzanotte andava via. Valerio lo aveva seguito più di una volta a bordo della sua auto, i due si spostavano insieme, con una moto che l’uomo venuto dal veneto guidava con eccessiva baldanza, e andavano alla discoteca a pochi chilometri fuori al paese. La discoteca si chiamava “Luna Blu” era frequentata da tutti i giovani della zona, ma anche da gente venuta da più lontano. Era posta sulla collina di fronte alla casa di campagna di Valerio a circa due chilometri in linea d’aria, divisi tra loro solo dal ruscello che segnava la linea di confine tra le due piccole alture. Dalla casa di Valerio di notte se ne vedevano le luci e il vento a volte portava i suoni e i ritmi fino a casa sua.
Il cane pensò, aveva raggiunto la condizione ottimale quindi il suo piano si poteva concludere, presto sarebbero tornati Rosa e Peppino, non rimaneva che un solo fine settimana. Il venerdì sera, andò direttamente al parcheggio del “Luna Blu” e si fermò in un posto da cui poteva osservare tutti quelli che entravano e che uscivano, aspettò a lungo, ma verso l’una di notte arrivò la moto e si fermò come le altre volte, al limite del parcheggio, dove due grossi cassonetti della spazzatura, segnavano il confine tra l’asfalto del parcheggio e l’inizio del bosco di querce e lecci.
Il calabrese smontò e qualcuno gli andò incontro, dopo pochi attimi il calabrese rimontò sulla moto e l’altro scomparve nel buio del parcheggio.
Valerio era sicuro che sarebbe ritornato la notte del sabato, dove ci sarebbe stato il pieno del locale, quindi non avrebbe dovuto fare altro che portare il cane chiuso nel sacco, e liberarlo dove c’erano i bidoni della spazzatura, affamato com’era si sarebbe trattenuto nell’ombra fino a quando sarebbe potuto attivare indisturbato ai rifiuti, lui lo avrebbe atteso nascosto nella boscaglia di rovi che riempivano le siepi tra gli alberi.
Imboccò il viale sterrato di casa sua tra il frinire dei grilli e sotto la luce di un ultimo pallido quarto di luna.
L’odore acuto dei vapori saturi del respiro delle piante entrava quieto dai finestrini abbassati, allontanando l’umido alito di mezz’estate. La sua mente concentrata sull’ultimo atto del suo tragico progetto e l’alta siepe che circondava la casa di Peppino non gli permisero di accorgersi dell’auto parcheggiata davanti all’ingresso. Peppino e Rosa erano tornati dalla vacanza al mare e si erano ritirati stanchi, tutto era già silenzio e quiete. Valerio si buttò sul letto finalmente stanco e assonnato, gli occhi rossi scrutavano il soffitto, pensava ai dettagli del recupero del cane, il ritorno a piedi che avrebbe fatto scendendo il versante della collina, l’attraversamento del ruscello e il ritorno a casa risalendo la china, poi avrebbe rifocillato Sabù e quindi l’avrebbe tenuto a fianco al suo letto tutta la notte.
Il libro che gli aveva mandato l’allevatore “Il cane, addestramento e condizionamento” era sempre lì sulla sedia, lo aveva riletto decine di volte, allungò stancamente la mano e fece per prenderlo, il libro sfuggì alla presa e cadde a terra, dove tante altre cose cadute in quel mese non erano state più raccolte, allungò la mano raccogliendo ciò che poteva. Tirò su con il libro un foglio rosato che portò davanti ai suoi occhi, era il certificato d’iscrizione al “libro origini italiano”, il pedigree di Sabù, lo guardò distratto, scorrendo i tanti nomi della sua genealogia, rilesse le prime note, la razza, la data di nascita, la qualità del colore e la dicitura “marcatura: 1Sx 14” posta con un tatuaggio all’interno dell’orecchio. Valerio si sentì gelare, era paralizzato da quello che avrebbe potuto significare quella marchiatura se il cane fosse invece fuggito e catturato poi dai carabinieri, certamente sarebbero risaliti a lui, non avrebbe più avuto la possibilità di scagionarsi dalle responsabilità che ne derivano, aveva creato un’arma che avrebbe finito per colpire lui stesso, sarebbe stato un atto di giustizia non più alla pari, quello che voleva era infliggere una pena uguale all’offesa, senza altre vittime, ritornare quello di prima, colmando il vuoto creato con quella inaudita violenza, con pari orrore, lui era e doveva rimanere colui che ha guidato gli eventi per raggiungere questo stato di quiete. La conclusione era semplice, Sabù dopo il compimento di quell’atto, doveva essere eliminato, e fatto scomparire. Il sonno lo colse all’alba.
Rosa bussò ai vetri dell’ingresso illuminato dal sole, più volte, Valerio si alzò e scalzo aprì la porta, riconobbe Rosa, ma rimase assonnato. “ Buongiorno, signor Valerio, forse vi ho svegliato, scusate, siamo tornati ieri notte invece di domani, per non trovare il traffico, ma voi non c’eravate, e siamo andati subito a letto” “ No” rispose Valerio “ non vi preoccupate, ero già mezzo sveglio, anzi ho sentito molti spari stamattina, che mi hanno tenuto in dormiveglia, ma forse è qualche festività?” “ No,no, Peppino dice che si è aperta la caccia, e qui intorno c’è stata una specie di mitragliamento”.
A Valerio non sfuggiva l’agitazione di Rosa che proseguì: “ Peppino è uscito con la macchina, insieme a Grazioso, e non vi preoccupate, che lo troveranno”. “ Chi?” rispose sorpreso Valerio, “ Il cane, il cane Sabù. Ieri sera Grazioso si è addormentato in macchina e per tutto il viaggio ha chiesto di vederlo, ma poi lo abbiamo portato a letto in braccio, era molto stanco, così stamattina, è corso fuori ed ha trovato il cane nel casotto delle bombole, poi ha gridato che faceva una passeggiata con lui e subito sono scomparsi, poi…..” qui l’agitazione di Rosa cominciò a penetrare Valerio, che piano piano sentiva le tempie dolergli e il sangue pulsargli nelle orecchie. “ Poi è tornato dieci minuti fa solo Grazioso, dicendo che il cane Sabù era scomparso, ci stavano in giro dei cacciatori, è probabile che l’hanno preso, è per questo che Peppino s’è fatto accompagnare da Grazioso, per farsi indicare il posto. Signor Valerio non ho mai visto piangere Grazioso così, era disperato, singhiozzava, ha detto che lui lo ha seguito fino allo stradone, poi è scomparso, non vi preoccupate, lo ritroveranno presto e lo riporteranno qui”.
In un attimo tutto il progetto, così ben elaborato e attuato, proprio quando si stava per compiere l’ultima e conclusiva parte, crollava, precipitava senza nessuna possibilità di recuperare nulla. Rosa e Peppino erano tornati prima del tempo per cui non avrebbe più avuto libertà di movimenti.
Grazioso, il figlio di Rosa, affezionato com’era al cane, avrebbe scoperto la nuova pericolosa indole, magari rischiando di persona. Il cane, l’attore principale di questa tragica farsa era scomparso, addirittura forse rapito dai cacciatori nel giorno stesso dell’apertura della caccia, tutto aveva preso una piega totalmente imprevista tanto da guastare irrimediabilmente il suo piano. La sua testa gli doleva di un dolore acuto che partiva dal lato destro del cranio e s’irradiava in maniera lancinante fino alla nuca, confuso e con un piede gonfio e dolorante, cominciò a riporre il registratore e le altre apparecchiature, andò fuori e tagliò la fune a cui era appeso il copertone, e con rabbia, trascinò nel salone il tapis roulant che aveva lasciato fuori e poi si avvicinò alla fossa della pacciamatura e ci buttò dentro i vecchi sacchi di juta per coprire le tracce di sangue e i ciuffi di penne che i polli sbranati da Sabù avevano lasciato sul fondo. Ritornò in casa e nello specchio del bagno, dopo essersi spruzzato il viso d’acqua, scorse un viso assurdo, sconosciuto, una barba lunga che non radeva da una settimana, gli occhi stralunati e i capelli arruffati e ridotti a ciuffi ispidi. Si guardò a lungo e sentì svuotarsi, gli sfuggivano i pensieri, vedeva in quello specchio l’altro da sé nudo, senza nemmeno la maschera della giustificazione, della pietà per sé stesso. Tuffò la testa sotto l’acqua che scorreva gelida dal rubinetto ancora aperto, il dolor di testa non si placò e una serie di conati di vomito lo fecero lacrimare, e la sua faccia arrossata, grondante acqua disegnavano ormai nello specchio solo lo sfinimento impotente di un guerriero che umilmente si arrendeva per sempre, a chiunque glielo avesse chiesto, e anche a chi non glielo avesse chiesto.
Sabù aveva dimenticato ogni dolore e correva nell’erba del colle che ingialliva, impazzendo di gioia seguito dalle incitazioni di Grazioso, erano giunti sulla sommità, dove un sentiero entrava in uno stradone tra gli alberi del bosco, arrivò prima Sabù, Grazioso s’era fermato a riposarsi lungo la salita, Sabù raggiunse lo stradone e i due cacciatori erano lì ad aspettarlo. L’avevano visto da lontano saltare nell’erba e correre, avevano riconosciuto subito il magnifico setter seguito dal ragazzo e in un attimo avevano deciso di prenderlo, un esemplare così valeva molto. Raggiunsero l’auto sullo stradone e a marcia indietro si erano avvicinati dove sbucava il sentiero, fu un attimo, saltarono addosso al cane che tentava di svincolarsi, ma fu rapidamente chiuso nel portabagagli. L’auto partì traballando tra le buche dello stradone dopo poche centinaia di metri, l’auto si fermò, e uno dei cacciatori aprì il bagagliaio, e lo richiuse lasciando uno spazio di pochi centimetri per consentire al cane di respirare, il cacciatore usò una corda per legare il coperchio del bagagliaio che annodò nella serratura, poi risalì in macchina e velocemente ripartì. Quando Grazioso arrivò sullo stradone, ormai Sabù era lontano, il piccolo lo chiamò, lo fischiò, lo cercò dappertutto, poi disperato tornò a casa avvisando il padre. L’auto dei rapitori uscì dallo stradone imboccando la provinciale e proseguendo in direzione opposta al paese, la corda con cui il bagagliaio era stato legato, a furia di colpi nelle buche dello stradone, se ne era uscito dal nottolino della serratura, e ad ogni colpo si sfilava un po’, Sabù cominciò a spingere nella fessura da cui respirava e la corda scivolava sempre più . l’auto aveva percorso circa dieci chilometri e lo spazio che si creò tra il portello e il bagagliaio fu sufficiente a Sabù per lanciarsi sull’asfalto che scivolava veloce, ruzzolò procurandosi un gran colpo sulla spalla, ma si infilò in un campo di granturco e scomparve alla vista. L’auto si fermò i due scesero e rincorsero il cane nel campo, ma ormai non lo avrebbero più raggiunto.
Quando Grazioso e suo padre ritornarono, Valerio aveva fatto la barba e la doccia, i suoi capelli rimasero bagnati a lungo, andò loro incontro salutandoli. Peppino raccontò che aveva percorso tutto lo stradone fino alla provinciale, ma non c’era traccia del cane, c’erano solo tracce di ruote di macchina che aveva sostato lì ore, e poi s’era allontanata rapidamente e di questo era certo, perché lo stradone è coperto di polvere sottile di terra e le tracce sono molto facili da capire, quindi ne deduceva che il cane era stato rapito dai cacciatori venuti lì il mattino presto.
Si sedette, poi sotto la pergola costernato, mentre Grazioso cominciò a singhiozzare e senza parlare rientrò in casa. Valerio allora disse loro che avrebbe parlato con il maresciallo in paese e avrebbe fatto una denuncia, forse all’apertura della caccia. La sorveglianza delle varie autorità è certamente più attenta e quindi l’auto poteva essere stata vista, poi chiese a Rosa di parlare con Grazioso e Rosa lo fece entrare lasciandolo solo nella grande cucina.
Grazioso era seduto al tavolo e guardava fisso e avvilito Valerio, che lentamente gli si avvicinò e gli carezzò i capelli, poi si sedette e aspettò che i singhiozzi, del piccolo si calmassero. “Sabù è molto forte ed intelligente, vedrai riuscirà a scappare e tornerà. Un cane così nessuno lo può fermare”. Grazioso faceva pochi singhiozzi, ma che lo scuotevano profondamente, rispose a Valerio a tratti, sospirando, con la voce monotona fissando le pieghe della tovaglia: “Cane Sabù piangeva stamattina, e non mi ha riconosciuto subito, ma io gliel’ho detto che ero tornato e che non sarei più andato via, allora lui mi ha annusato a lungo, e poi mi ha fatto le feste, ecco perché siamo andati a correre nei campi, lui mi voleva fare le feste”.
“Sì, gli sei mancato un po’” disse Valerio sentendosi montare in viso da un rossore inatteso. “Quando Sabù tornerà, rimarrà qui con te, lo prometto, sarà tuo se lo vorrai”.
Le parole di Valerio uscirono sincere, ma non riuscì ad ingoiare il duro groppo formatosi in gola, non riuscì a frenare quelle frasi che davano a Grazioso una piccola pace, ma a lui ormai un’odiosa etichetta da ipocrita e bugiardo, era troppo tardi per tutto, ogni cosa era stata spinta oltre ogni possibile punto di non ritorno, e se veramente Sabù fosse tornato, rimaneva sempre un’arma carica, pronta a colpire in qualunque momento, quindi le bugie che raccontava al bambino erano ancora più lerce, poiché servivano solo a coprire quello che adesso gli appariva come una follia temporanea dovuta forse alla solitudine nella quale era sprofondato dopo la morte di Caterina.
Sabù con la spalla dolorante uscì dal suo nascondiglio solo quando la notte gli sembrò amica. Si avviò lungo la strada da dove era venuto senza mai trottare sull’asfalto che tardava a raffreddarsi, ma solo sulla ghiaia, e ad ogni auto che arrivava illuminando il lungo nastro nero che a tratti sembrava d’argento per i vapori che da esso esalavano, entrava nei campi e continuava ad andare tra rovi, stoppie e radi boschetti. Camminò per ore fino a quando giunsero alle sue attente orecchie suoni ancora lontani, ma già ben conosciuti, erano suoni ritmati che del suo casotto delle bombole di gas già aveva sentito, gli odori vaghi che prima erano sparute molecole in quadrilioni di altre particelle odorose, adesso erano più fitte, la sua memoria gli riportava l’odore del ruscello nel quale giocava, la mentuccia umida della riva, e poi quello pungente dei papaveri ingialliti e secchi che salivano sul colle che portava alla sua casa, a qualcosa di familiare seppure pregno di dolore e sofferenza. Il rumore divenne fastidioso, e i fasci di luce che si incrociavano sul tetto di quell’edificio lo infastidivano, ma lo riconobbe, era il luogo da dove quella rumorosa musica usciva, era quello il punto in cui doveva discendere la china del colle poi attraversare il ruscello e arrivare a casa, era la via breve, e la fame che sentiva gli faceva dolere i muscoli del ventre.
Avrebbe attraversato dal lato del parcheggio dove il buio era più fitto, e poi il bosco, al confine, gli avrebbe permesso di aspettare nascosto il momento migliore per uscire e correre verso il ruscello.
Arrivò silenzioso, percorrendo il sentiero del bosco in vista dei bidoni della spazzatura, l’odore dei rifiuti inaciditi al sole, lo risucchiavano e lo eccitavano, ma un’auto era parcheggiata al buio, e alcune voci umane giungevano un po’ morbide e basse, alle sue orecchie. Nell’auto una coppietta d’innamorati si scambiavano attenzioni. Sabù si fermò accucciandosi nel buio dietro ai grossi bidoni in attesa. Improvvisamente un odore acre lo colse di sorpresa e la risposta della sua memoria fu dolorosa come uno schianto luminoso quell’odore era cattivo, era pieno di maligna inimicizia.
Salì dal suo più intimo esistere un cupo e sordo ringhio che gli tirava su le grosse labbra trasformando in una smorfia diabolica la sua bocca arida e affamata. Un lampo lucente apparve accanto alla portiera dell’auto, e una figura armata di coltello aprì rapidamente lo sportello, i due occupanti spaventati e immobilizzati dallo shock, non si mossero. Il ladro allungò velocemente una mano all’interno dell’abitacolo e afferrò la borsa della ragazza, i gesti erano rapidi ma la donna riavuta dallo spavento, riuscì a prendere la cintura della sua borsa e proprio addosso all’uomo che era rimasto immobile, seduto al posto guida, cadde sempre tenendo stretta la borsa, fu allora che il ladro pronunciò poche rabbiose frasi dette a denti stretti, ma che Sabù già conosceva: “Molla! Molla tutto brutta stronza! T’accidi”. La frase terminò in bocca al rapinatore, non ebbe il tempo di arrivare alle orecchie della ragazza, le zanne di Sabù erano già profondamente penetrate nella sua gola, e rivoli di sangue già scendevano per la trachea raggiungendo i polmoni, il ladro cadde battendo la schiena sul taglio dello sportello aperto e non ci fu tempo per niente, il coltello volò via e Sabù non mollò mai la presa costringendolo con la schiena dolorante a terra.
Gli occhi del rapinatore non distinguevano quale orrendo mostro si fosse abbattuto con tanta violenza su di sé e i suoi occhi non videro mai la furia e la bestiale foga di quell’unico morso alla gola che Sabù riuscì a dare senza nemmeno averlo chiesto ai suoi muscoli, per lui fu uno scatto involontario dentro al suo cervello, un lieve, inesorabile “tic” come quello di un meccanismo ad orologeria di una bomba, fino ad un attimo prima ancora compresso e nullo, un attimo prima, dopo terribile e devastante. I due innamorati scapparono dall’auto correndo verso il “Luna blu” convinti che un mostro irriconoscibile e tremendo aveva assalito il rapinatore.
Il rapinatore aveva tentato di liberarsi della tremenda presa, annaspando tra i peli fulvi di Sabù, ma riuscì ad afferrare, mentre l’aria non raggiungeva più i suoi polmoni e gli occhi che volevano uscire dalle orbite, i testicoli di Sabù e in un automatico e disperato tentativo di difesa, strinse con tutte le forze che gli rimanevano, ma durò poco, la morte sopraggiunse avida e terribile.
Sabù lasciò la gola del suo nemico a fatica, sentiva le mascelle legnose, rigide e il sapore del sangue che aveva sulla lingua gli ricordò le galline.
S’allontanò nel buio attraversando il parcheggio pieno di auto, mentre alcune persone cautamente si avvicinavano ai bidoni della spazzatura con pile e accendini accesi.
Il dolore ai testicoli cominciò ad avvertirlo quando arrivò nei pressi dell’acqua del ruscello, aveva corso per tutta la china della collina, senza fermarsi, conosceva di quella valle ogni siepe, ogni sentiero, anche i grossi spuntoni di roccia o i grossi ceppi di quercia che interrompevano il sentiero creando angoli e deviazioni che al buio nessuno avrebbe potuto vedere.
Il bruciore aumentò e dovette rallentare la corsa, non aveva sentito alcun male quando era stato ferito dal rapinatore, adesso però il dolore era forte, ma l’acqua fredda del ruscello lo calmò, attraversò lentamente e cominciò a risalire la china dei papaveri secchi con rinnovato vigore, la casa era lì poco più su, lì avrebbe riposato.
Valerio s’era messo a letto con i suoi tormenti, ma il piede gonfio l’aveva poggiato su un cuscino, e l’ultima cosa che passò nel suo cervello prima di addormentarsi fu una visita di controllo che doveva fare al più presto presso l’ospedale, ma non solo per il piede, ma soprattutto per il dolore alla testa, che ormai non l’abbandonava più, il colpo ricevuto nell’incidente forse aveva bisogno di cure ulteriori e urgenti.
Sabù arrivò all’ingresso della casa di Valerio stanco trascinando le zampe posteriori, il potere lenitivo dell’acqua fredda del ruscello era scomparso da tempo, ora gli rimaneva un dolore acuto che partiva dalla radice dei suoi testicoli gonfi come due grosse arance che gli impedivano di camminare e s’irradiava a tutto l’addome, faticosamente grattò con la zampa sulla porta del salone dove Valerio dormiva già, ma lentamente annusando i luoghi che l’avevano visto pochi giorni prima correre sul tapis roulant, o mordere il copertone, si allontanò da quel cortile, attraversò la strada polverosa e umida tra i grilli che non smisero mai il loro canto notturno, ed entrò nel cortile della casa di Rosa, girò, trascinando le zampe, intorno alla siepe e all’auto e arrivò all’ingresso della casa di Grazioso, annusò a lungo un vecchio giaccone, si accucciò arrotolandosi su sé stesso, riuscì a leccare poche volte i suoi testicoli enormi.