– di Elvio Accardo –
In quella giornata, tutto si svolse come previsto e organizzato da don Carlo.
Nel tardo pomeriggio, don Pietro e Amedeo, scesero le scale dietro al sarcofago, e attraversarono l’antico tunnel, le cui pareti erano un susseguirsi di nicchie, nelle quali ancora parti di scheletri spuntavano tra ragnatele e mucchi di terriccio.
I due camminavano con due candele accese e i piedi in un rivolo d’acqua che a tratti superava le caviglie. L’animo di don Pietro in quel luogo cosi tetro, dove la morte riassumeva i dettagli della vita, era tormentato da un dubbio che non gli dava pace: aveva abbandonato il gregge dei suoi parrocchiani al loro destino? Oppure stava cercando di mettere in salvo la pecorella smarrita? I suoi parrocchiani, pensava, domani avranno un altro pastore: don Giulio, mentre lui avrebbe aiutato Amedeo a salvarsi dall’inferno della guerra e lui stesso, pecorella smarrita in un’ingenua selva di inesperienza.
Prima di uscire spensero le candele, e si immersero nel buio di un boschetto di canne palustri.
L’odore greve dell’acqua ristagnante e i vapori caldi respirati, distolse don Pietro da quei pensieri, mentre Amedeo faceva strada tra le canne, scorsero la luce di una fiammella poco distante sullo stradone che costeggiava la marcita, e udirono la voce di Salvatore, che indicava la direzione.
Salirono sul carretto e Salvatore spense anche la lanterna che aveva segnalato la sua presenza e in silenzio si avviò affidando al cavallo il percorso in quella strada sterrata, solitaria e buia.
Arrivarono a Castelnuovo facendo un giro ampio per non incontrare nessuno, fino ad un lungo muro che costeggiava la stazione e i binari dove Salvatore fece scendere i suoi compagni, scavalcarono in silenzio il muro e si trovarono tra i binari.
A pochi passi, nel buio del piazzale, c’erano tre vagoni fermi chissà da quanto su un troncone di binario morto, Salvatore li fece salire sul terzo e chiese di non uscire da lì fino a quando qualcuno non li avesse chiamati, avrebbero potuto aspettare anche un giorno intero, consegnò a don Pietro un fiasco d’acqua e alcune pesche e li salutò con un abbraccio.
Le ore passavano in quel vagone silenziose e lente, Amedeo seguiva in silenzio spiando dalle griglie di ferro dei vecchi aeratori, le attività di rifornimento d’acqua della locomotiva che faceva manovra nel piazzale. I vagoni che erano agganciati trasportavano truppe tedesche e alcuni camion. Pochi treni passarono, tutti andavano verso Napoli. Don Pietro cominciò un rosario sussurrando nel buio, subito Amedeo sedette a fianco a lui e lo interruppe , e con voce flebile, un po’ balbettando, disse : “I veci ià vuò el figà de ‘ndar a morir”, “Già”, rispose don Pietro, “proprio cosi, i nostri amici macchinisti hanno avuto coraggio di andare a morire, non hanno denunciato i loro compagni napoletani, io prego per loro, ma tu piuttosto, parli meglio se parli in veneziano, te ne sei accorto?” Certe volte se fa fatiga a parlar e a farse capir, go capi tut, voria tegnarve streti qua visin, pori veci”.
Mentre Amedeo diceva queste parole, si udirono passi di scarponi sulla breccia dei binari e voci dai suoni aspri e gutturali che si avvicinavano al vagone velocemente, don Pietro mise rapidamente una mano sulla bocca di Amedeo, terrorizzati pensarono di essere stati scoperti.
Il gruppo di soldati girò intorno al loro vagone, e proprio davanti al portellone sotto al muro, alcuni abbassarono i pantaloni e defecarono rumorosamente, mentre gli altri urinavano sulle ruote arrugginite, qualcuno rideva, un altro ripeteva continuamente: “schnell, schnell,”. Alla fine se ne andarono attraversando i binari di corsa fino alla stazione, dove il treno che aveva caricato acqua per la caldaia della locomotiva, già si muoveva. Tutto il resto del giorno e della sera, i soldati tedeschi vigilarono, controllando persone e bagagli.
Un continuo via vai di povera gente che riempiva l’area antistante la stazione con ogni tipo di bagaglio, valige, scatole di cartone, coperte che avvolgevano chissà cosa, bambini insofferenti in cerca d’acqua da bere, vecchi seduti per terra o sulle valige, tutti con la speranza di vedere un qualsiasi treno fermarsi e dare loro una possibilità per allontanarsi verso nord.
Nessun treno si fermò più, soldati tedeschi armati fino ai denti convinsero a modo loro quelle persone ad allontanarsi, facendoli tornare indietro.
Nel vagone, entrava attraverso le griglie del piccolo finestrino la fredda luce lunare, e a tratti, un faro posto sul tetto della stazione per controllare il piazzale, passava sul vagone e sul muro illuminandoli a giorno. Don Pietro espresse le sue perplessità per l’ora tarda, e ancora nessuno arrivava, cominciò a pensare che qualcosa era andato storto, ma poi le parole di Salvatore gli tornavano in mente: l’attesa poteva essere lunga, ma quanto? Ad un tratto, due colpi lievi sul portellone e una voce appena udibile dall’interno del vagone che chiamava:” don Pietro, state qui?, rispondete, sono un amico di Salvatore, rispondete”.
Amedeo lentamente aprì il portellone quanto bastava per scendere seguito da don Pietro.
L’uomo disse: “Scavalchiamo il muro qui all’ombra del vagone, il faro non ci coglie, presto, dopo facciamo le presentazioni”.
I tre passarono dall’altra parte del muro tenendosi bassi e seguendo l’uomo che li aveva chiamati.
Camminarono per un centinaio di metri, entrando in una strada sterrata dove un vecchio autocarro era parcheggiato tra due siepi, “Salite, presto, dobbiamo andare”. L’autocarro partì a fari spenti, attraversando boschetti e siepi in piena campagna, solo alla luce della luna.
A bordo dell’autocarro nessuno disse una parola, fino a quando incrociarono una strada asfaltata e l’autocarro la imboccò dirigendosi a nord, lo sconosciuto autista accese i fari dicendo: “Adesso sto in regola, tengo il permesso di circolare per dodici ore, adesso è l’una e mezzo, abbiamo tutto il tempo. Questo è Amedeo?” rivolto a don Pietro. “Sì” rispose il prete “Io mi chiamo…” “Già so chi siete voi e questo – pilorusso – il tuo amico Amedeo. Io mi chiamo Peppino, Peppino Gargiulo ma mi conoscono meglio come ‘coppola rossa’ e teniamo alcuni amici in comune”. “Voi siete Gargiulo?” disse don Pietro” “No, solo coppola rossa”.
“Amedeo, dietro ai sedili ci sta una lamiera con una maniglia, è un cassone dove ci si mette il bagaglio per i viaggi lunghi, apri e mettiti dentro, non è tanto piccolo, è un po’ scomodo, ma ci dobbiamo arrangiare.
Io vado a caricare il granito a Bellona, un paese vicino Capua. Il porto di Napoli viene bombardato un giorno sì e un giorno no, anche ieri hanno sganciato bombe, una volta gli inglesi una volta gli americani, nessuno trova pace, nemmeno sotto i ricoveri, si muore a migliaia.
Io tengo il permesso di percorso per dodici ore firmato dal podestà e controfirmato dal colonnello tedesco, comandante del porto, io carico il granito e loro aggiustano il molo per le loro navi che caricano e scaricano mezzi, carri e soldati”.
“Io tengo una lettera per il rettore del seminario di Teano”, disse il prete dopo che Amedeo s’era infilato nel cassone dietro i sedili, “e la possibilità di incontrare i tedeschi e subire un controllo è certa, Teano è lontana, vi metterebbe in serio pericolo”.
Coppola rossa come se non avesse sentito, rispose: “Don Pietro, Teano è stata bombardata, non hanno risparmiato neppure la cattedrale, è un cumulo di macerie, ci stanno centinaia di morti e i rastrellamenti ovunque, io vi porto, se ci riesco , da quelle parti , se il seminario sta in piedi, vuol dire che in una maniera o in un’altra ci arrivate, noi viviamo giorno per giorno solo con la speranza di vedere finita questa tragedia, ma non sappiamo se quel giorno ci saremo.
Tra cinque chilometri, incontriamo un blocco tedesco, voi e Amedeo scendete, e seguite un sentiero che sale su una collina, entra in un bosco, e voi andrete avanti fino a che non trovate un abbeveratoio in pietra, grande, seguite il sentiero a sinistra e vi troverete dopo cinquecento metri su questa stessa strada, io sto la ad aspettare, non tardate, c’è luna stanotte, non potete sbagliare. Io passo coi miei documenti, e voi non vi fate vedere, ripartiamo subito, faccio sempre un giro lungo, e vado più sicuro a Teano, in un certo luogo poi ci fermiamo, e aspettiamo le tre. Una persona ci raggiungerà, e la porterò in un certo posto, poi andremo verso Teano, vi lascio da quelle partì, e io me ne vado a caricare il granito. Quindi don Pietro, non dirmi niente, le cose che devo sapere già le so, le cose che adesso ti ho detto come se non le avessi mai dette, per il resto lassa fa a dio, prega se vuo’ e lassa fa a dio”.
Il carro si fermò, coppola rossa spense il motore e le luci, tutti scesero. Il frinire dei grilli prese il sopravvento nel silenzio che segui, i due imboccarono il sentiero indicato da coppola rossa che si inerpicava sulla scarpata scomparendo tra gli alberi.
L’autocarro ripartì, e come previsto fu fermato più avanti da un faro e una sbarra dietro la quale un’autoblindo fermo impediva il transito.
Un folto gruppo di soldati con i mitra spianati intimarono l’alt, e ordinarono all’ autista di scendere con le mani alzate, e spegnere il motore e le luci.
Coppola rossa scese con le mani alzate tenendo tra i denti il suo permesso e i suoi documenti. Dall’autoblindo scese un tenente che prese i documenti e il permesso e si spostò sotto la luce del faro, dove le ombre scomparivano, lesse tutto, più volte mentre due soldati salirono nell’autocarro perquisendo ogni angolo, altri due salirono sul malandato cassone e fecero altrettanto battendo con il calcio del mitra sulle lamiere del fondo, altri due lo perquisirono.
Il tenente prese i documenti e disse in un italiano approssimativo: “Tu mancia carta, nein maccaroni? Morgen tu mancia maccaroni ia?” I soldati scesero dall’autocarro precipitandosi a riferire al loro capo il quale segnalò di spostare la sbarra. L’autocarro riparti evitando l’autoblindo manovrando fuori strada.
Cinque minuti dopo, coppola rossa rallentò, dietro una lunga curva don Pietro e Amedeo risalirono a bordo.
L’autocarro si fermò, dopo aver percorso strade impervie e solitarie, fino ad arrivare in una radura tra le alte colline, coppola rossa dando uno sguardo all’orologio disse:” sono le due e mezza, rimanete qui in silenzio, io torno tra mezz’ora e scomparve nel buio.
Rimasti soli, la luna cominciò a coprirsi di nuvole, e la notte diventava più scura, gli umori umidi della campagna divennero prepotenti, si distinguevano le essenze selvatiche e l’odore dei gambi secchi del granturco, segno che il tempo stava cambiando, si prospettava una giornata di cielo coperto o di pioggia. Don Pietro chiese ad Amedeo: “Hai paura?” “No, ho fame”, rispose Amedeo.
Un fruscio e la portiera dell’autocarro si aprì, Amedeo e don Pietro sobbalzarono, ma si affacciò coppola rossa e con un balzo entrò seguito da un uomo alto, magro, con una giubba militare sconosciuta, il suo buongiorno era accompagnato da una scia profumata di brillantina che svaporava dai suoi capelli lucidi e ben pettinati, seguì uno zaino pesante che fu appoggiato dietro sul cassone.
L’autocarro si avviò per gli stessi sentieri da cui era venuto a luci spente. Ognuno trovò lo spazio per sedersi e coppola rossa disse: “Don Pietro, questo è il capitano Johnny Blesso, dell’esercito americano, è arrivato ieri direttamente dal cielo”, lo disse disegnando nell’aria con la mano aperta, la discesa di un paracadute”. “Sia lodato Gesù Cristo, buon giorno a tutti”, disse il capitano con un accento tipico di americani figli di italiani, strinse la mano a tutti, e offri sigarette lucky strike senza filtro.
Amedeo con il suo balbettio, sforzandosi a non usare il dialetto veneto fece capire al capitano che quello non era un luogo per un soldato americano, era pieno di tedeschi e di fascisti, doveva andare via subito. Coppola rossa intervenne dicendo che il capitano era in pericolo quanto loro, ma che rappresentava una speranza per la fine della guerra, facendo il suo lavoro dietro le linee tedesche, e a loro toccava di aiutarlo il più possibile per individuare dove i tedeschi avevano messo le loro truppe i loro cannoni, “ noi italiani dobbiamo combattere insieme a loro, dobbiamo distruggere pure i semi marci, che sono nostri compaesani” Amedeo rispose: “Mi so de Venessia, miga de Napoli”, tutti risero. Il capitano disse “Ho camminato molto, per quattro ore sopra queste colline e, ma ne è valsa la pena, ho visto abbastanza, my friends arrive early, e sanno nuotare”
L’autocarro costeggiò per un lungo tratto una profonda scarpata in fondo alla quale un ruscello rumoreggiava tra rocce. Svoltò sulla strada provinciale, illuminando un cartello stradale che indicava il paese di Sparanise.
In un attimo, la luce di un potente faro si accese, mentre raffiche di mitra riducevano a brandelli le grosse ruote dell’autocarro. Tutti uscirono lanciandosi a capofitto correndo verso lo stradone lasciato poco prima, coppola rossa fu colpito subito, stramazzò sull’asfalto, mentre gli altri coperti dall’autocarro si lanciarono nella scarpata di fianco allo stradone, ruzzolarono giù fino al ruscello e di corsa continuarono la fuga risalendone il corso.
Gli ordini di inseguimento furono dati mentre quattro soldati già correvano lungo lo stradone, Coppola rossa strisciando si mise seduto appoggiandosi alla ruota dell’autocarro, un conato di sangue usci dalla bocca allargandosi sul mento e colandogli in petto, una figura si era inginocchiata accanto a lui e lo guardava morire, poi con voce gelida disse: “Tu mancia maccaroni oggi, con viel tomate, io dire te Carciulo, ia?” coppola rossa sputò tutto il suo secondo e ultimo conato sul viso da ragazzo dell’ufficiale del posto di blocco.
La luna illuminava sinistramente la fuga nel torrente ancora incassato tra due scarpate, mentre i soldati seguivano dall’alto mitragliando a caso nel buio sottostante senza colpire nessuno.
La scarpata alla destra dei fuggiaschi terminò di colpo facendo posto ad un sentiero scavato nella ripa, continuando sull’altra, interrotto solo dal corso del basso torrente. Il capitano che guidava la precipitosa fuga indicò a don Pietro e ad Amedeo di risalire il sentiero e nascondersi tra gli alberi e aspettarlo.
I due sempre correndo scomparvero nella notte, il capitano Johnny, segui per ultimo, diede un rapido sguardo tra le ombre scure e capi di trovarsi in una vasta radura tra secolari alberi di ulivo. Si nascose rapidamente dietro il primo albero più vicino all’uscita del sentiero, sfoderò la sua pistola e attese.
Sulla strada, l’ufficiale tedesco aspettava con i due soldati addetti all’autoblindo, il ritorno della squadra all’inseguimento dei fuggiaschi.
L’ordine che aveva ricevuto dal comando di Napoli era quello di controllare l’autocarro 626 fiat guidato da “Gargiulo Giuseppe”, soggetto pericoloso, sospetto collaboratore della resistenza partigiana veneta, sospetto referente OSS (Office of Strategic Service) americano, e lasciarlo andare, intercettarlo e arrestarlo successivamente sulla strada provinciale 37 all’altezza “bivio Frattole” di Sparanise. Sospetto appuntamento con agente OSS paracadutato “zona Frattole degli Aurunci”. Sarebbe seguito l’immediato invio di due squadre di corpi speciali di difesa in bivio Frattole arrivo previsto ore 3.00.
L’attesa del capitano Johnny fu breve, i soldati trovarono il sentiero e attraversarono il ruscello, risalendolo sulla ripa opposta, inseguivano i fuggiaschi senza vederli, erano guidati solo dalla logica del sentiero, passarono a poco più di un metro dal tronco maestoso e antico dell’ulivo, il capitano Johnny sparò per primo al soldato che chiudeva il gruppo, poi a quelli che lo precedevano, nessuno ebbe il tempo di accorgersi dell’agguato, solo il primo, riuscì a girarsi e rispondere con una lunga raffica ai colpi precisi del capitano che crollò colpito a sua volta ad una gamba dal soldato, che continuò a sparare nel buio senza sapere di aver colpito qualcuno.
Caduto dietro l’ulivo, il capitano cercava invano la sua pistola caduta nell’erba, tastando alla cieca il terreno al buio. Il soldato tedesco riparatosi dietro a un albero, indietreggiò in silenzio. Ricaricò l’arma e ricominciò a mitragliare nella direzione dove erano caduti i suoi camerati non ebbe risposta al fuoco, pensò di aver abbattuto con le sue raffiche l’invisibile nemico.
Inciampò contro il cadavere di uno dei suoi camerati, e poi scorse la sagoma del capitano appoggiata all’ulivo, puntò il mitra in direzione della sua faccia, il capitano chiuse gli occhi, e improvvisamente due grosse mani callose, abituate al lavoro duro delle fonderie, si strinsero intorno al collo del soldato che emise solo un flebile gemito quando le arterie furono schiacciate dalla potente morsa delle dita di Amedeo.
Il tenente tedesco, tentò di comunicare con le squadre dei corpi speciali inviati da Napoli, che erano in ritardo, dalla radio dell’autoblindo.
Sentiva le raffiche dei mitra dei suoi soldati a caccia degli sconosciuti fuggiaschi. Improvvisamente i colpi secchi sparati zittirono, solo il motore dell’autoblindo ruggiva, avevano catturato i fuggitivi? Li avevano uccisi? Pensò che aveva fatto un ottimo lavoro, da solo, con quattro uomini aveva eliminato un pericoloso partigiano, e altri tre nemici, tra cui una spia americana.
Il camion con la squadra speciale arrivò, scesero una dozzina di soldati che dietro sue indicazioni si inoltrarono nello stradone correndo. Il sottufficiale che li comandava, riferì al tenente che il ritardo era dovuto al reperimento del camion impegnato in un rastrellamento a Torre del Greco. Di corsa il sergente si lanciò nella direzione indicata.
Don Pietro raggiunse il ferito, insieme ad Amedeo lo trascinarono per un centinaio di metri, poi videro le luci delle torce dei soldati che sull’altra scarpata cercavano di raggiungere i loro camerati che non rispondevano ai loro richiami. Amedeo, mentre don Pietro fermava il sangue della coscia del ferito con la cintura che il capitano gli aveva dato, ispezionò velocemente il posto dove erano arrivati, scelse l’albero d’ulivo più alto e fitto di foglie e rami, e tornò. Afferrò il capitano e lo portò sotto l’albero che aveva scelto, don Pietro disse a bassa voce: “Che vuoi fare?” Amedeo mentre metteva in piedi il capitano poggiandolo al grosso tronco disse: “lo porto su più che posso, in mezzo ai rami pieni di foglie, in alto, nessuno lo vedrà più, tu capitano, resti immobile e io e don Pietro appena vediamo i tedeschi, scappiamo tra gli alberi, cosi ci corrono appresso e non ti scoprono”. Mentre Amedeo portava su il capitano Johnny, aiutato da don Pietro, i soldati scoprirono i cadaveri dei quattro camerati uccisi, il sergente ordinò di dividersi in due gruppi, il primo avrebbe risalito il torrente dall’alto della scarpata, il secondo sparso nell’uliveto. Il capitano si sistemò tra i rami, Amedeo assicurò la sua schiena nella forcina di un grosso ramo d’ulivo molto in alto sull’albero, mentre la gamba ferita rimaneva distesa su un lungo ramo pieno di foglie e di olive, che in quel mese erano già pronte da cogliere. “Adìo amigo mericàn, mi te ricordarò sempre”. Disse Amedeo sussurrando all’orecchio del capitano, che commosso lo strinse al petto dicendo: “Anche io, grazie, thanks bro , j owe you my life , ti devo la vita”. Amedeo discese dall’albero e con don Pietro attese l’avvicinarsi dei tedeschi. Le torce dei soldati indicarono la direzione e la distanza, “Scampa corando Pierin, scampa corando desviando l’arbori, stammi vicino”, disse sottovoce Amedeo, poi ad in tratto “Scampa, scampa Pierin”. Cominciò una corsa a zig zag tra gli alberi, mentre i soldati cominciarono a mitragliare nel buio guidati dallo scalpiccìo dei fuggiaschi. Il capitano Johnny, vide passare sotto di se la squadra tedesca, correndo e sparando, tutti si allontanavano verso le colline, dietro le quali qualche accenno di pallido sfumato grigio annunciava la luce. Don Pietro e Amedeo, attraversarono l’uliveto e arrivarono fino ai margini di un campo di gambi secchi di granturco, don Pietro mise un piede in fallo e cadde malamente , Amedeo lo aiutò a rialzarsi, ma la caviglia non lo resse, “ va via, corri, io non posso, va via” Amedeo a malincuore continuò a correre, ma fu una breve fuga, perché l’altro gruppo di soldati che risaliva il torrente dalla scarpata, udendo le raffiche dei camerati, aveva deviato velocemente il loro percorso in quella direzione, attraversando il campo di granturco. Amedeo se li trovò di fronte, con i mitra pronti a sparare, allora si fermò con le braccia alzate all’arrogante “Alt” gridato dai soldati, nella grigiastra luce dell’alba che segnava la fine della disperata fuga, dicendo: “Va in cuèo da to mare”. Il mitra del soldato più vicino lo colpì con violenza sul viso, procurandogli uno squarcio sullo zigomo da cui il sangue uscì copioso trasformandolo una maschera rossa.
Don Pietro fu catturato dai soldati che li avevano inseguiti prima e toccò ad Amedeo trasportarlo al camion dove avevano già caricato i quattro cadaveri dei soldati uccisi. Coppola rossa illuminato dal faro dell’auto-blindo, giaceva ancora, coperto di sangue, appoggiato alla ruota maciullata dell’autocarro. Nel camion i soldati fecero stendere Amedeo e don Pietro accanto ai cadaveri e il tenente montato sull’autoblindo, partì seguito dal camion che non si curò di evitare il corpo di Coppola rossa, che occupava la carreggiata. Arrivarono a Sparanise, proseguirono fin verso lo scalo ferroviario dove c’era un campo di concentramento detto “la caiola”, dove transitavano migliaia di sbandati militari catturati dai tedeschi e altrettanti civili rastrellati un po’ ovunque nella provincia di Napoli e Caserta, per essere poi deportati in Germania.
Don Pietro e Amedeo furono gettati in una baracca, l’occhio e la guancia di Amedeo erano tumefatti, steso nel camion il sangue dalla ferita era colato tra i capelli e poi raggrumato nei suoi capelli rossi, don Pietro con la caviglia rotta e gonfia cercava un appiglio per potersi mettere a sedere sul pavimento di tavole bagnate di urina di altri prigionieri prima di lui, Amedeo lo sollevò e lo appoggiò alla parete di legno.
FINE DELLA SECONDA PUNTATA