Due bambine vengono rapite in una tranquilla cittadina della Pennsylvania. Keller Dover (interpretato da Hugh Jackman) è un uomo comune, marito e padre di due figli. Un uomo che lavora onestamente, e che è anche profondamente cristiano. Cosa può scatenare in lui una perdita? Il caos può dominare sulla razionalità? Denis Villeneuve, regista de “La donna che canta” (candidato all’Oscar come miglior film straniero nel 2011), ci porta all’interno di un universo malato, perverso e pericoloso. Definire “Prisoners” banalmente un thriller sarebbe riduttivo: durante tutti i centocinquantatre minuti -esclusi quelli iniziali in cui c’è un clima idilliaco- lo spettatore assiste alla violenza più efferata, alla follia più sconsiderata. È come se ci sentisse in un labirinto. Non ci sono sufficienti prove, solo supposizioni; la risoluzione del caso è ben più complessa di quello che ci si potrebbe aspettare.
Keller Dover si lascia travolgere dalla sete di giustizia che lo porta a compiere atti privi di qualsiasi umanità. Prima dà la caccia al rapitore di sua figlia, poi diventa esso stesso artefice di un rapimento. Un vero e proprio paradosso: cercare nei modi più disparati -e disperati- l’uomo che ha portato via sua figlia e la sua amica e lasciarsi coinvolgere al tal punto da diventare lo stesso tipo di uomo. È difficile da immaginare come anche la fede più certa possa vacillare di fronte ad un dolore così forte. La moglie di Keller, invece, reagisce in un altro modo, l’autodistruzione. Dilaniata dalla sofferenza, si imbottisce di psicofarmaci per attutire lo shock; rende la sua percezione dello sgomento più debole così da poter sopravvivere. Il regista utilizza tutti i codici del genere (il padre amorevole, il detective scrupoloso e pieno di intuizioni, la cittadina tranquilla) per poi sconvolgerli e scardinare la ricostruzione classica dell’enigma. Villeneuve ci presenta l’immagine di un uomo che ha perso la ragione e che pur di difendere i propri figli è disposto ad accettare metodi disumani diventando esso stesso il “nemico”. “Prisoners” scuote, disturba, sconvolge. Appare molto appropriata la scelta del titolo “Prisoners”, non a caso al plurale. Ognuno dei personaggi del film, infatti, è prigioniero di qualcosa o di qualcuno. Anche lo spettatore è intrappolato all’interno del labirinto. Nello smarrimento generale, diventa difficile distinguere tra giusto e sbagliato, tra quello che è lecito e quello che è assolutamente privo di qualsiasi logica.Il punto di forza della pellicola è la sua struttura contorta. La visione di “Prisoners” può far sentire il pubblico alienato, disorientato. Quello che emerge è che la violenza è sempre parte integrante della nostra società e spesso persino gli innocenti possono diventare colpevoli. Il lato oscuro e il caos prendono totalmente il sopravvento. Denis Villeneuve ci mostra come ogni essere umano possa trasformarsi in un mostro per amore e per giustizia. È compito dello spettatore comprendere il significato del termine giustizia.
Mariantonietta Losanno