– di Elvio Accardo – L’infuocato paesaggio di stoppie si estendeva a perdita d’occhio nel pomeriggio silenzioso e fermo come un campo dipinto.
Solo su un lato, una lunga siepe di rovi e fitti cespugli di ginestra ormai sfiorita da tempo, disegnava un limite.
Lontano le prime colline si fondevano col blu cobalto dei monti, e il cielo, privo di sfumature, riempiva ogni angolo con l’azzurro abbacinante, facendo scomparire ogni ombra. La siepe di rovi, ancora piena di more, la maggior parte secche, apparivano come piccoli grappoli d’uva nera appassita dal sole e svuotata dall’inestinguibile sete di vespe e calabroni.
A tratti la siepe era interrotta da fusti neri di nodosi alberi di lauro, che spandevano dalle fitte foglie dal colore verde cupo, odori antichi, che evocavano quarti di maiale sotto sale, stesi nelle madie in cucine di campagna, coperte di rami di lauro, profumando ogni cosa.
La volpe percorreva il fianco della lunga siepe, e si fermava annusando l’aria secca e asciutta di quel primo pomeriggio di mezzo agosto, evitando i rami bassi dei rovi, le cui spine aguzze strappavano i peli alla sua pelliccia, lasciandoli penzolare come invisibili segnavento.
Il percorso era lungo, e per giungere al solitario albero di pere che avrebbe potuto alleviare la sua fame, e un po’ la sua sete, doveva attraversare le stoppie basse infuocate, e né ombra né nascondigli avrebbe trovato per coprire i quindici metri che separavano la siepe dall’albero, che era cresciuto lì di lato, come un solitario totem fronzuto a cui chiedere una possibilità di sopravvivenza dai suoi frutti caduti tra le stoppie, nei giorni di penuria di qualsiasi altro nutrimento.
Mangiare le pere cadute dall’albero era sempre l’ultima speranza di cibo, in una giornata di caccia in cui ogni forma di vita sembrava sparita; anche le lucertole erano rintanate profondamente per difendersi da quella calura, e nemmeno quelle avrebbe potuto addentare.
La fame la rendeva imprudente, e il suo percorso fino a quell’albero era pieno di punti scoperti, assolati, dove qualunque cacciatore avrebbe potuto vederla e spararle facilmente.
Angelo Garofalo, da tutti chiamato “u svizzero” per aver lavorato dieci anni a Lugano guidando ruspe, era tornato con un buon gruzzolo, e con una moglie altoatesina, cameriera in un piccolo ristorante sul lago, a cui era piaciuto quell’italiano un po’ rude e un po’ spaesato e schivo, che viveva con altri tre operai italiani in una baracca, nel grande deposito di ruspe e camion dove lavorava.
Era tornato al suo paese e aveva aperto un bar, molto modesto, ma sufficiente per andare avanti.
Catrina, sua moglie, al banco a servire caffè e birre, e Angelo ad approvvigionare la cantina di buon vino locale che consumavano i paesani, nella saletta retrostante giocando tutte le sere a tressette o a scopone.
Il piccolo paese agricolo era posto a cavallo di due valli molto verdi, dove si coltivava prevalentemente olivi e viti, ottimi luoghi per queste due coltivazioni che vantavano ricche produzioni di olio e vino pregiati.
Una frazione di una cittadina più grande con un passato che per ragioni varie, talvolta entrava nella storia ufficiale d’Italia.
Questa collina dominava una vasta valle, quasi tutta in piano, al centro della quale scorreva un fiume, questo sì che era stato un fiume di grande importanza storica, a partire dai tempi dei romani fino alla seconda guerra mondiale, passando per l’epopea garibaldina.
Un gran bel fiume che rendeva fertilissima tutta la valle sin dall’antichità.
Angelo accostò l’auto al lato dello stradone sterrato.
Aveva percorso i due chilometri fino ai campi di stoppie, adagio, senza sollevare polvere, guidando attentamente per evitare buche e fastidiosi sobbalzi.
Per tutta la strada aveva pensato alla strage di galline che la settimana precedente era avvenuta nel suo pollaio. Una strage di quattro galline padovane, che anche in agosto facevano uova.
Le galline erano state uccise da una volpe, una era stata portata via, le altre azzannate furiosamente.
La volpe era entrata nel piccolo giardino dietro al bar, aveva scavato un passaggio sotto la rete, entrando nel casotto attraverso un’apertura piccola e stretta, appena sufficiente per le galline.
All’interno la devastazione era totale, i trespoli rovesciati, le cassette per le uova capovolte, e sangue e penne dappertutto.
Era domenica, ed era la festa del paese.
Nel pomeriggio nelle stradine era passata la processione con la statua della vergine e la banda.
Nel suo bar pieno di amici e clienti, aveva deciso con Catrina di chiudere alle nove, così potevano andare alla piazzetta e ascoltare le esibizioni canore di cantanti e orchestrine.
Fu proprio quella l’ora dell’irruzione della volpe. Nessuno aveva sentito gli schiamazzi delle galline e i vari cani, che gironzolavano in paese insieme alla gente in festa, erano attratti solo dalle bancarelle di dolciumi e dal pulmino che arrostiva wurstel e hamburger.
Angelo aveva rinunciato al pranzo con Catrina per raggiungere la siepe a valle, ed appostarsi con la sua doppietta, appartenuta al padre, tra i rovi e aspettare il possibile passaggio della volpe.
Era il quarto giorno che andava ad appostarsi lasciando chiuso il bar dall’una fino alle tre.
Il caldo di quei giorni lo tramortiva, e la sua borraccia di vino bianco fresco di frigo, non l’aiutava a tenere sveglia l’attenzione, anzi, appostato in quella siepe, in quel caldo silenzio avrebbe potuto assopirsi.
Ma il ricordo della strage delle sue galline, lo teneva sveglio e attento.
Angelo aprì il bagagliaio e prese la cartucciera, la doppietta e la fiasca di bianco, ne bevve subito un sorso.
Saltò la cunetta e si avviò verso la siepe lontana.
Ad ogni passo, miriadi di cavallette saltavano spaventate, e tutte insieme creavano un fruscio secco che si perdeva tra gli infiniti piccoli crepacci del terreno arido.
Il corvo, in quell’ora infuocata, uscì dalle siepi di mortella ai piedi della collina. Aveva scorto una tana di topolini ai piedi di un grosso castagno, e intorno al buco, ghiotti semi di carrubo, durissimi da rosicchiare per un topo, ma magnifico bottino per il suo becco.
Si avvicinò saltellando, ma scorse tra i sottili steli di felci ombrose, un serpente nascosto tra le foglie secche e vecchi ricci di castagne. Immobile analizzava con il vibrare rapido della sua lingua la direzione da prendere per arrivare alla sua preda.
Il topolino dietro un ciuffo di erba secco, era disteso a pancia su, vittima del veleno del serpente che lo aveva già morso qualche tempo prima, e ora giaceva nei pressi della tana, immobile, aspettando di diventare cibo per quel serpente.
Il corvo si allontanò e spiccò un volo rapido e deciso verso sud, dove un cielo abbacinante lo accolse in uno scintillio di riflessi d’argento delle sue piume nere.
La volpe si fermò improvvisamente quando sentì il frinire di tutte le cicale sparse nella siepe e sugli alberi come se avessero ricevuto un segnale misterioso da un invisibile maestro d’orchestra. Il suono secco e metallico l’avvolse, ma la volpe non si spaventò, si concesse una sosta nascondendosi nella siepe, ormai era di fronte all’albero di pere e solo i pochi metri assolati la separavano dall’albero.
Il corvo volava alto, raggiunse i campi di stoppie in poco tempo, planò silenzioso sui rami alti del pero, ancora pieni di foglie.
Cercò i frutti appesi ai rami, assaporandone la polpa matura ancora prima di beccarli, ma non ne trovò.
Le mosche si posavano sulle pere mature cadute per terra, succhiandone i dolciastri succhi, in competizione con formiche e altri insetti, il corvo si accorse del ronzio, e decise rapidamente di lanciarsi ai piedi dell’albero, e banchettare con le pere condite con cavallette, le formiche, e magari mosche. fece per lanciarsi, ma scorse nella siepe la volpe accucciata con la lingua penzoloni e respiro rapido, si fermò di botto, non voleva diventare il pasto della volpe, attese un momento migliore, nascosto tra le foglie.
Angelo camminava piano, facendo meno rumore possibile, voleva arrivare all’altezza del pero e appostarsi, sapeva che la volpe poteva passare proprio di li per arrivare all’albero.
La volpe aveva visto il corvo planare sull’albero, poi era scomparso tra le foglie, però non l’aveva visto andar via, segno che voleva mangiare le pere mature e dolci cadute.
Si mosse con velocità, senza far rumore, raggiunse l’albero e si fermò sotto, dal lato in ombra, quello opposto alla siepe, certa di non essere stata vista, si accucciò ai piedi dell’albero dove l’erba era protetta dall’ombra della chioma, che ancora resisteva.
Il corvo riguardò la siepe, ma non rivide più la volpe, strano segno, se la volpe fosse andata via, avrebbe sentito o visto i suoi spostamenti, malgrado le folte foglie del pero, se invece aveva attraversato il terreno scoperto fino all’albero lo doveva sentire rovistare tra l’erba in cerca di pere.
Angelo arrivò all’altezza del pero, dalla parte coperta della siepe, si fermò e cominciò a scrutare tra le stoppie attentamente, preparò il fucile e apri la doppietta per caricare con due cartucce le canne, quando chiuse il fucile, che produsse un breve rumore secco e metallico della culatta, zittì per alcuni secondi il coro delle cicale, che riprese più vivo poco dopo.
Al corvo quei pochi secondi di silenzio bastarono per scorgere Angelo appostato dietro la siepe che si dissetava con il suo vinello fresco, segui i suoi movimenti e capì che mirava basso, alla ricerca di qualcosa, fece più attenzione e vide la volpe ai piedi dell’albero.
La volpe si accorse del breve silenzio delle cicale, e percepì subito l’odore acre della polvere da sparo bruciata, proveniente dalle canne di un fucile, non vide nessuno, la siepe copriva tutto, non si mosse, scorse le pere che avrebbe voluto divorare, mature, dolci, avrebbe voluto anche di più : affondare i suoi denti nella carne del corvo, per questo aspettava, non si mosse, era sicura che il corvo non l’aveva vista raggiungere la base dell’albero, e così nascosta certo non lo aveva ancora scorto, perciò l’attesa avrebbe fatto decidere il corvo a raggiungere le pere e, una volta a terra, l’avrebbe azzannato. trascurò l’odore di cordite e il breve silenzio delle cicale e decise di non muoversi.
Il corvo si spinse su di un ramo più basso, desiderava arrivare alle dolci pere cadute, ma avrebbe rischiato troppo con la volpe così vicina, decise di far sentire la sua voce, avrebbe così avvisato la volpe del pericolo che correva, avrebbe potuto metterla in allarme e costringerla a guardarsi intorno e scorgere il cacciatore, e scappare via coperta dal tronco che si trovava tra lei e la siepe, lasciando libero il campo e mangiare così le pere.
Angelo aguzzò la vista, vedeva dietro l’albero un colore che gli sembrò prima bruno, poi fulvo: era la volpe. L’eccitazione lo raggiunse, facendogli fare dei movimenti un po’ disordinati, ma allineò le canne della doppietta poggiando la sua guancia sul calcio, respirò profondamente e attese che la volpe si spostasse un po’ in avanti, quella che aveva nel suo mirino era la coda fulva rossiccia e gonfia, il resto stava dietro l’albero.
Il corvo vide i movimenti del cacciatore, e saltò sui rami ancora più in basso, gracchiò due volte, l’aria si riempi di due secchi suoni che spaventarono la volpe e anche Angelo, che si mosse tra i rovi. La volpe in un lampo si voltò e scorse la doppietta volta nella sua direzione, saltò su e scappò via, veloce come una saetta, rimanendo per molti metri coperta dal tronco del pero.
Pensò mentre correva ansimando di essere stata molto fortunata perché quello che lei sperava diventasse il suo cibo, il corvo, le aveva invece salvata la vita.
Angelo vide la volpe scappare via velocissima, ma non poteva sparare, avrebbe solo colpito il tronco del pero.
Il corvo, felice di aver raggiunto il suo scopo, ovvero allontanare la volpe e arrivare alle pere, saltellò su un ramo più sotto per poi arrivare a lanciarsi ai piedi dell’albero.
Angelo deluso e pieno di rabbia per non aver potuto sparare alla volpe, alzò la sua doppietta mirando verso i primi rami del pero e scorse il corvo. Il tuono parti dalle canne, i pallini roventi sconquassarono i luccichii delle piume nere e una nuvola di dolore e di silenzio avvolse il corvo, mentre cadeva nei ciuffi d’erba ai piedi dell’albero in mezzo alle pere marce, che mai più avrebbe beccato.
Angelo bevve un lungo sorso di vino bianco ancora fresco dalla sua borraccia, mise la doppietta in spalla e s’incamminò per i campi di stoppie verso lo stradone, dove lo aspettava la sua macchina,
La volpe raggiunse senza più fiato la selva di castagni e felci ai piedi della collina. Si fermò e si accucciò nell’erba. Le cicale da quel boato zittirono per il resto del pomeriggio, e quando il sole stanco di ardere la valle cominciò a scendere dietro le alte montagne, la volpe a testa bassa, guardinga ma soddisfatta, raggiunse l’albero di pere e azzannò divorandolo il corvo ucciso.
Mangiò anche le pere e tornò sazia alla selva.
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