INFLUENZÒ MUSSOLINI MA ANCHE GRAMSCI E PASOLINI
– Proponiamo, con l’autorizzazione dell’autore, l’articolo di Alfonso Piscitelli, giornalista de “La Verità” di Maurizio Belpietro, pubblicato sul mensile “Primato Nazionale” diretto da Adriano Scianca.
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D’ANNUNZIO VERSUS GUERRI
di Alfonso Piscitelli
Giordano Bruno Guerri ha avuto lo stravagante merito di mostrarci in pieno XXI secolo come si confeziona una “pia frode”, qualcosa di molto simile a ciò che avveniva nei secoli di più fervente devozione cristiana. Nel Medio Evo e per tutto il Rinascimento il filosofo stoico pagano Seneca, sulla scorta di una indicazione di Gerolamo che lo inseriva nel catalogo degli autori edificanti, veniva considerato cristiano in segreto, il suo suicidio in una vasca colma d’acqua veniva interpretato come un atto battesimale e si commentavano le lettere intercorse tra lui e l’apostolo Paolo, lettere ovviamente false. Il ragionamento “ideologico” alla base di quella mistificazione è facile da comprendere: siccome non si poteva negare l’alto ingegno e la profonda moralità di Seneca bisognava in qualche modo inserirlo nella cornice della nuova religione, sottraendola ai nefasti del passato regime pagano. Ecco, tutto sommato così fa Giordano Bruno Guerri con d’Annunzio. E in questo caso la religione è quella – profana – dell’antifascismo…
Fino a che punto gli autori medievali di “pie frodi” fossero consapevoli della loro manipolazione e fino a che punto finissero col credervi, autoconvincendosi? Bella domanda che potrebbe essere riproposta oggi nel caso di Giordano Bruno Guerri, che insediatosi al Vittoriale ormai da anni tende a proporre ai visitatori il culto del santino Gabriele, “democratico e antifascista” cocainomane (dunque buon modello identificativo) e protettore di irregolari.
Se Guerri ci creda o ci marci è però una questione di secondaria importanza rispetto al rilevare il clamoroso anacronismo storico in cui l’intellettuale toscano in fondo cade. Chiedersi se d’Annunzio era fascista, al di là della improbabilità della risposta (“era antifascista”), viola infatti uno dei presupposti più elementari della ricerca storiografica ovvero il rispetto dei nessi cronologici-causali. Il poeta abruzzese era nato nel 1863, praticamente coetaneo del Regno d’Italia… A fine Ottocento era stato già deputato della destra storica e con coraggio non consueto era passato ai banchi dell’opposizione di sinistra dopo che il governo aveva varato le “leggi liberticide” e aveva cominciato a rispondere con le cannonate di Bava Beccaris alle manifestazioni di chi si batteva per i beni di prima necessità. D’Annunzio reinterpretava Nietzsche e Wagner quando Mussolini professava ancora il marxismo; esaltava l’impresa coloniale di Libia, mentre il giovane massimalista di Predappio faceva con Nenni lo sciopero contro la guerra… D’Annunzio inveiva nel “Piacere” contro il “grigio diluvio democratico” in nome della bellezza eroica e del superuomo, un mood che non è proprio un buon prerequisito per la iscrizione postuma all’A.N.P.I.… Nel 1914 era stato l’oratore principe del fronte interventista e con sapienza politica, più che letteraria aveva raccordato la guerra contro gli Imperi Centrali allo spirito del Risorgimento, in particolare del Risorgimento più “rosso”: quello di Garibaldi e dei Mille. Già allora appariva chiaro come l’aristocratico poeta tendesse a porsi al di là della destra e della sinistra, sicuramente fuori dagli schemi del bipolarismo classico liberaldemocratico.
Insomma, d’Annunzio “già c’era” prima che Mussolini marciasse su Roma e rivoluzionasse l’Italia, fino ad allora, dei notabili. Per cui, volendo esprimerci con un paradosso, non ha tanto senso chiedersi se d’Annunzio fosse “fascista”. Questa domanda ha senso per una serie di personaggi, di diverso valore, della generazione successiva: per gli Aldo Moro e i Fanfani, gli Ingrao e i Pasolini, gli Almirante e Spadolini. Tutti costoro si formarono nel clima del fascismo per cui è lecito chiedersi, fino a che punto la loro generazione assorbì gli impulsi ideologico-culturali del fascismo, fino a che puntò li superò in seguito o li amalgamò con le parole d’ordine dell’epoca successiva…
Nel caso di d’Annunzio ha invece senso chiedersi piuttosto fino a che punto egli abbia inciso nella nebulosa in formazione del Fascismo. Chiunque sia dotato di buon senso e di onestà intellettuale non può che rispondere che l’influsso del Vate sia stato preponderante. Nella poetica e nella visione del mondo di d’Annunzio, gli elementi fondamentali dell’ideologia fascista erano presenti prima ancora che Mussolini li convogliasse in un programma pragmatico, capace di fare i conti con la “realtà effettuale delle cose”.
Questo punto viene sottolineato in maniera molto chiara da Claudio Siniscalchi nella prefazione al libro pubblicato dalle edizioni A.G.A. di Maurizio Murelli: autore Nino Daniele, “D’Annunzio politico nell’impresa fiumana”. Siniscalchi ricorda la tesi di Mosse secondo il quale il fascismo assunse le caratteristiche di una “religione laica”. Ebbene proprio “in d’Annunzio, «profeta della nazione», la politica si trasforma in «liturgia secolare», in «religione politica», essendo il sommo «sacerdote di una religione della patria, mistica e popolare». Fu proprio d’Annunzio, dunque, a favorire la nascita del nuovo stile politico, “grosso modo durante i sedici mesi in cui governò la città di Fiume (dall’11 settembre 1919 al 10 gennaio 1921)”. Cosa altro aggiungere?
Certo Guerri ha buon gioco nel sottolineare ed esasperare gli aspetti “libertari” dell’esperienza di Fiume: le feste, qualche giro di cocaina, la tolleranza per le sessualità alternative. Tutto vero. Ma sta di fatto che d’Annunzio era arrivato a Fiume protestando contro la Società delle Nazioni e sull’onda dell’indignazione nazionalista (oggi si direbbe “sovranista” …) per la Vittoria Mutilata. Fiume era italiana per sangue e per suolo, dunque andava ricongiunta alla madrepatria, non con sterili trattative e pavidi compromessi, ma con la mano militare.
Andrea Scarabelli, relatore al convegno “Fiume città sacra” che si è tenuto a Milano il 25 maggio con il patrocinio, tra l’altro dell’UniTre, ha notato: “Curiosamente i politici italiani, come Nitti, si rivolgevano alla Società delle Nazioni con lo stesso tono di deferenza usato da certi politici nostrani nei confronti dell’Unione Europea e del suo direttorio franco-tedesco: dobbiamo aver fiducia in loro”, ripeteva instancabilmente Nitti, quel Nitti che d’Annunzio apostrofava, con una verve che oggi sarebbe considerata populista, come “Cagoja”. “Se è per questo”, ha rilevato Scarabelli, “in un articolo pre-fiumano, d’Annunzio ha anche parlato della necessità di affermare una fede popolare “contro la casta politica che con ogni mezzo tenta di prolungare forme di vita menomate e dispregiate”.
Il poeta-soldato in un discorso a Fiume del settembre 1920 esordiva: “Italiani di Fiume! Nel mondo folle e vile, Fiume è oggi il segno della libertà… narra ed esalta l’ardimento, delle truppe forti e generose che sono accorse a salvare la nostra città dalla ignominia in cui voleva trascinarla il governo”. Ora se gli è rimasto un briciolo di rigore storiografico Bruno Guerri deve ammettere che quella libertà non è la “libertà di farsi canne” e di far l’amore come si pare, ma è la libertà dei cittadini-soldato che difendono la sovranità nazionale su un lembo di terra italiana. L’invettiva poi contro la viltà e l’ignominia del governo, appartiene a un repertorio di temi che chiunque in Italia attribuirebbe al formulario di tipo “fascista”. Nello stesso giorno del discorso d’Annunzio lanciava un appello al popolo croato: “È l’ora di dire tutta la verità, al di sopra dei governi che la nascondono ai loro popoli per interesse o paura. I popoli italiano e croato sono vittime di un infernale intrigo finanziario…”. Questo era d’Annunzio e tali erano le sue coordinate semantico-politico, se proprio si vuole fare il giochino – quasi mai rigoroso – dell’attualizzazione ognuno può giudicare in quale campo ideologico è più facile inserire il poeta.
Quanto poi alla interpretazione di Fiume come “utopia pre-sessantottina”, essa non è una elaborazione originale di Guerri, ma riprende la tesi che occhieggia in un libro di Claudia Salaris globalmente interessante, che dopo anni ruppe il silenzio sulla importanza storica della Reggenza del Carnaro nel 2002: “Alla festa della rivoluzione: artisti e libertari con d’Annunzio a Fiume”. Anche qui però è evidente lo sforzo dell’analogia. La festa di Fiume è l’euforia dopo una guerra duramente e disciplinatamente combattuta e proseguita con coraggio volontaristico dopo una sentenza ingiusta dei Trattati di Pace. Gli intellettuali di sinistra che vorrebbero appropriarsi di Fiume, magari sono gli stessi che elogiavano il lugubre e ideologico film di Rosi “Uomini contro”. Superfluo far notare che d’Annunzio sarebbe stato col famigerato “generale Leone” e avrebbe fatto sparare agli imboscati (e in qualche circostanza pare che davvero lo fece) …
Analogia per analogia, molto più sensato considerare l’Impresa di Fiume come l’ultimo grande esempio di volontarismo risorgimentale: un’esperienza a suo modo di “sinistra”, ma della sinistra nazionale sul modello di Mazzini e Garibaldi. Nel 1948, dopo il fallimento della I Guerra di Indipendenza, i volontari italiani crearono le repubbliche di Roma e di Venezia. Anch’esse esperienze decisamente utopistiche, se si pensa che Mazzini andava a scalzare il potere millenario dei Papi. Analogamente dopo la guerra vinta, ma umiliata dai trattati di pace di Parigi, i volontari di d’Annunzio creano una repubblica “risorgimentale” e la Carta del Carnaro per molti aspetti si lega alla Costituzione Romana del 1848 (che sarebbe poi tornata d’attualità nell’autunno del 1943…).
È un peccato che Guerri, a cui pure si può riconoscere di aver rivitalizzato il Vittoriale come “luogo dell’anima” italiana, abbia voluto sterilizzare d’Annunzio con una operazione che fallisce in partenza anche se oggi viene riproposta nel suo saggio “Disobbedisco”. Semmai la via giusta sarebbe stata quella di notare come il poeta, pur intimamente legato alla esperienza fascista, sia una figura che riesce a esprimere tutto il prisma, tutta la straordinaria complessità dell’identità italiana. È per questo che Gramsci ha potuto amare il lui il “rivoluzionario” e Pasolini ha cercato, a modo suo, di imitarlo in alcuni passaggi della sua opera. Ed è per questo che a più di un sessantottino è piaciuto di sentirsi “dannunziano”.
D’Annunzio aprì la strada al fascismo con la Reggenza di Fiume, fu con Mussolini nel momento più critico successivo al delitto Matteotti, accettò di presiedere l’Accademia d’Italia. Tra i due vi furono ovvi contrasti e anche in un breve periodo una sottile competizione, ma proprio perché erano due “maschi alfa” dello stesso recinto politico-ideologico, eppure il Vate in una lettera del ’36 ribadì “a viso aperto” tutta la sua stima nei confronti del Duce. Lo mise in guardia dalla stretta alleanza con Hitler (ma del resto così fece anche Marinetti) e negli ultimi anni al Vittoriale non smise di sognare una nuova avventura irredentista nell’Adriatico per ricondurre all’Italia la Dalmazia. Il “disobbedisco” o perché no anche il “me ne frego” il d’Annunzio vero lo dice a Bruno Guerri e alla caricatura che l’attuale “reggente” del Vittoriale ha disegnato sulla sua figura.