Sette i peccati capitali, sette gli omicidi che uno psicopatico programma. Una violenza che sconvolge lo spettatore che assiste inerme alle torture efferate che compie il killer. La regia di David Fincher è atipica e originale. Pur riprendendo gli schemi tipici del thriller, apporta modifiche di grande impatto. I protagonisti della pellicola sono due detective, uno vecchio e scontroso, ormai stanco e disilluso; l’altro giovane, ottimista ma menefreghista delle leggi. Fincher rispetta, dunque, i soliti cliché. Conferisce, però, un certo spessore ai suoi personaggi, dando loro più profondità, mettendo maggiormente a nudo i tratti caratteristici delle loro personalità. Quando poi i due si scontrano con la ferocia del killer che uccide per conto del suo legame ossessivo con la religione e con l’obiettivo di ripulire il mondo dal Male, le loro esistenze vengono investite da una tale brutalità da cui sarà impossibile uscire illesi.
Il regista racconta l’assoluta e sconvolgente precisione di un disegno maligno: la sua è, allo stesso tempo, un’indagine psicologica e un’analisi morale della società. L’angoscia è costante, lo spettatore avverte la sensazione di vivere in un incubo. La violenza che “Seven” mette in mostra non può lasciare indifferenti. Il cinema di Fincher è inquieto, caotico, disturbante: riesce a spingersi nei meandri della mente umana senza mostrare alcuna paura. “Fight Club” mostra il disagio che vive l’uomo moderno e la scissione che spesso siamo costretti a compiere quando ci troviamo condizionati a reprimere i nostri sentimenti per seguire le convenzioni di una società asfissiante; “Gone Girl” è invece il lungo, delicato e folle lavoro di una mente psicopatica pronta a compiere qualsiasi gesto, anche il più sconsiderato, pur di non accettare la fine di un amore. “Seven”, thriller simbolo degli anni Novanta, è un film sadico e doloroso. L’interpretazione di Kevin Spacey è rivoluzionaria: si finge un uomo comune, che indossa abiti comuni e che si confonde fra la gente fino quasi a risultare invisibile, celando la sua anima diabolica priva di qualsiasi forma di umanità. Il mondo in cui “Seven” è ambientato è senza speranza, è l’espressione del Male nella sua forma più crudele. I corpi ormai senza vita delle vittime portano scritto addosso il loro peccato: il goloso muore mangiando fino ad esplodere, l’avaro ingerendo un pezzo di se stesso. Lo spettatore è nauseato, ma non può far a meno di lasciarsi coinvolgere dal gioco perverso di un regista che sa mantenere il controllo e sa muovere i fili nel modo giusto. È come se ci sentisse aggrediti, deturpati. Il finale straziante mostra una follia ragionata che tenta di pareggiare i conti e agisce per vendicare un’ingiustizia inenarrabile. Concludiamo con la citazione che chiude il film, ripresa da Ernest Hemingway: “Il mondo è un bel posto e vale la pena lottare per esso”.
Mariantonietta Losanno