Sarebbe difficile, accingendosi a trattare le opere di Wenders, evitare un accenno al fenomeno cinematografico nel quale l’autore in questione, se non altro per motivi generazionali e di nazionalità, può essere incluso, cioè quello che comunemente denominato “nuovo cinema tedesco”. Un segno distinto che accomuna la personalità e la pratica dei “nuovi” cineasti tedeschi è la mancanza di un preciso retroterra culturale nazionale, di un modello a cui ispirarsi e contro cui combattere, l’assenza di un Padre insomma, “il che è comunque -ha ribadito Wenders- un buon inizio per chiunque” (M.Fontana, “Intervista a Wim Wenders”). Un vuoto ideologico e linguistico strettamente collegato alla crisi economica e produttiva: i registi tedeschi hanno dovuto cominciare tutto daccapo, non c’era alcuna industria cinematografica alla quale appoggiarsi. Hanno dovuto costruire dal nulla le proprie possibilità di produzione e distribuzione. Se è vero, dunque, che la fine della guerra è stata seguita da un lungo periodo di impasse culturale, nel quale il rifiuto e la rimozione dell’identità nazionale (contaminata e colpevolizzata dal nazismo) ha comportato l’assunzione di modelli culturali stranieri, è chiaro che proprio in questi stimoli esterni andranno ricercate le basi del processo di formazione dell’attuale generazione di cineasti. La presenza indubbiamente più significativa all’interno della formazione culturale dei registi del “nuovo cinema tedesco” è quella della cultura e del cinema americani. Fra gli autori di questa nuova “scuola”, Wenders è quello che con maggiore coscienza e lucidità affronta lo stridente rapporto tra la cultura tedesca e quella americana: il suo cinema è quello in cui si rivela più evidente la contraddizione di tale difficile simbiosi. Se in altri registi il “mito” americano viene recuperato a livello di referente cinematografico o di componente diegetica, in Wenders la presenza americana si insinua nella globalità nella globalità del film, investe la scrittura, i personaggi e l’ambiente.
Wim Wenders è stato definito il cineasta viaggiante. Il suo cinema è fatto di spazi, di viaggi e di tormenti interiori. “Paris, Texas” (1984) è la storia di una perdita, di una forte incomunicabilità, della capacità di provare amore ma dell’incapacità di viverlo. Dopo una lunga ripresa area su un desolato paesaggio roccioso, la macchina da presa scorge in lontananza la figura di un uomo che cammina nel deserto, apparentemente senza meta. L’uomo, il cui aspetto è piuttosto trasandato, arriva in un posto abitato, entra in una drogheria e sviene. Ricoverato in un ambulatorio, Travis -questo è il nome dell’uomo- non risponde alle domande del medico, che decide di chiamare il numero telefonico trovato nel suo portafoglio. Accorre subito il fratello dalla California, Walt, che dopo aver pagato un conto salato, se lo porta via, ma non senza difficoltà. Travis, infatti, non parla, non ha reazioni, scappa più volte, si rifiuta di collaborare. I due percorrono un viaggio lungo due giorni, scambiando una sola parola: “Paris”. La testa di Travis ruota intorno a quel luogo, è come un’ossessione. Travis si riferisce però ad un paesino del Texas dove ha acquistato un terreno per corrispondenza e dove intende stabilirsi, perché è quello il luogo in cui è stato concepito dai suoi genitori, il suo “punto di partenza”. Rifiutandosi però di prendere l’aereo, i due continuano il viaggio in auto. Premiato a Cannes con la Palma d’oro, “Paris, Texas” consacra la fama internazionale del suo autore, trasformandolo in oggetto di “culto”, soprattutto tra i cinefili delle nuove generazioni. La pellicola segna il definitivo distacco da un’America intesa come approdo mitico, come un “mondo magico a cui tendere”, e a riprova della disponibilità all’indagine di nuove dinamiche narrative, registra l’ingresso nell’universo wendersiano di un personaggio, quello femminile, fino ad allora rimosso, o soltanto vanamente cercato. “Paris, Texas” è un film lento e amaro, è uno sguardo nel vuoto.
C’è una forte e disperata ricerca di una meta, c’è la paura degli spazi immensi. Il lungo pellegrinaggio di Travis è un tentativo di riaffermare il proprio essere di fronte al nulla. Un nulla che lo spettatore conosce e che vede manifestarsi nell’assenza di legami sentimentali e familiari.
Nel 1987, invece, usciva uno dei capolavori di Wim Wenders: “Il cielo sopra Berlino”. Il film, insignito di numerosi premi tra cui quello per la miglior regia a Cannes, presenta la Berlino degli anni ottanta, ancora divisa a metà dal muro. Nel cielo grigio sopra la città, nelle sue vie e nei suoi edifici si aggirano numerosi angeli non visibili agli adulti, ma soltanto ai bambini. Questi angeli possono sentire i pensieri di ognuno e cercare, mettendosi loro accanto, di lenire i dolori dei più sofferenti. Due di loro, in particolare, Damien e Cassel, si ritrovano per raccontarsi le reciproche esperienze. Mentre Cassel prende a cuore il destino dell’anziano Homer, un vecchio scrittore, Damien si imbatte in un circo prossimo alla chiusura, nel quale lavora la bella trapezista Marion, oppressa dalla solitudine. L’angelo finisce per innamorarsene e decide, dopo un’eternità passata ad osservare le vite delle persone, di diventare mortale e sperimentare le emozioni e il contatto umano, al fine di trascorrere la sua nuova vita con Marion. Il film è in bianco in nero, una scelta messa in atto dal regista per sottolineare la distanza degli angeli dalla vita degli esseri umani. Quando Damien acquisisce la dimensione umana, perdendo l’immortalità, tutto prende una nuova forma e un nuovo colore. Il cinema ha bisogno di questi capolavori. “Il cielo sopra Berlino” è un’opera capace di rappresentare non soltanto la realtà storica della Germania nel periodo della guerra fredda, ma anche di analizzare la natura dell’animo umano, le sue sofferenze e le sue emozioni. Wenders affronta con la poesia il tema della crisi di identità del popolo tedesco, in seguito alla sconfitta della seconda guerra mondiale e a tutto l’orrore dell’olocausto. Infatti il film inizia con una voce maschile fuori campo, dal tono ispirato, modulata da un misterioso sentimento di pace, che accompagna, traducendola dal tedesco, la scrittura di una poesia: “Quando il bambino era bambino era il tempo di queste domande: perché io sono io, e perché non sei tu; perché sono qui, e perché non sono lì; quando comincia il tempo, e dove finisce lo spazio; la vita sotto il sole è forse solo un sogno? C’è veramente il male? È gente veramente cattiva? Come può essere che io, che sono io, non c’ero, e che un giorno io, che sono io, non sarò più quello che sono?”. Con questa bellissima poesia di Peter Handke, il regista sembra chiedersi se è ancora possibile dopo il genocidio ritrovare se stessi, apprezzare ancora le poesie, ritrovare il rispetto verso il prossimo. “La gente è veramente cattiva?”, riprendendo questa frase Wenders sembra voler dire: è possibile rivivere con il ricordo la gioia e la purezza che si prova da bambini? È proprio infatti nella fase più fantasiosa del bambino, che si formano in modo indelebile emozioni straordinarie, visionarie, di una poeticità unica. Il cielo diventa poi la metafora del luogo celeste e luminoso, privo di ogni divisione o confine, da cui è possibile guardare Berlino con uno sguardo puro come quello degli angeli e che si ritrova appunto nei bambini.
“Il cielo sopra Berlino” è un film suggestivo e commovente. Gli angeli diventano un espediente per il regista per permettere allo spettatore di entrare nei pensieri più profondi dei cittadini berlinesi. La maggior parte di questi pensieri sono malinconici, di rassegnazione. Anziché interrogarsi sul futuro, le persone sono propense alla rassegnazione, alla depressione, come se la Germania potesse ancora fare del male, come se non si fosse ancora liberata dai drammi del genocidio e della guerra. I dialoghi interiori riflettono un mondo prigioniero di un passato che non si riesce a dimenticare. Si entra nelle vite dei personaggi, si sente il loro dolore, accompagnato da un’atmosfera cupa, grigia che sembra fare un tutt’uno con una popolazione che non trova più la propria identità. Il film però riesce a trasmettere una speranza di possibile rinascita: il bianco e nero che contraddistingue tutto il film improvvisamente prende colore e illumina Berlino, proprio quando l’angelo prende le sembianze umane. Sarà l’amore a renderlo umano, a colorarlo, a farlo sorridere. Ed è per questo che “Il cielo sopra Berlino” si trasforma allora in un inno alla vita.
Mariantonietta Losanno