CASERTA – L’Articolo Uno MDP – Liberi Uguali provinciale ha tenuto negli ultimi giorni una assemblea provinciale e ha redatto un documento ufficiale che verrà presentato all’Assemblea Regionale che si terrà sabato 5 maggio. Questo il testo: “Il voto del 4 marzo è stato uno spartiacque epocale nella storia politica italiana. Le urne hanno solo in apparenza ribadito il tradizionale dualismo elettorale tra il Nord e Sud, con la riarticolazione a trazione leghista del centrodestra e lo sfondamento del Movimento Cinque Stelle nel Mezzogiorno. Non di meno, gli stessi risultati hanno spazzato via in un sol colpo tutti i riferimenti della lunga e incompiuta transizione seguita alla fine della guerra fredda e al crollo della Repubblica dei partiti. Vincono ipotesi politiche che raccolgono un’esasperazione fondata sulla paura e sulla rabbia, alimentando la sfiducia nei confronti delle istituzioni rappresentative e scommettendo sulla dissoluzione di ogni mediazione democratica organizzata, sia dei sindacati sia dei partiti. Nel caso leghista i territori vengono evocati come una sorta di organismo vivente e autosufficiente, in quello pentastellato si agita il mito della democrazia diretta e istantanea. In ambedue ci si consegna assolutamente indifesi nelle mani di pochi illuminati, deputati carismaticamente a incarnare le sorti di un radicale, ma imprecisato, progetto di cambiamento. Impressiona, inoltre, l’estrema povertà politica e culturale dei messaggi e delle proposte avanzate da questi vincitori della contesa elettorale, riassunte nella ricerca di capri espiatori ai quali addebitare colpe e contro i quali sfogare risentimenti e timori — gli immigrati, la microcriminalità, i politici, le caste — blindandosi, in fin dei conti, dietro gli steccati di piccole patrie e d’insopportabili egoismi identitari. Tutte le forze di derivazione progressista escono, invece, travolte da un pesante giudizio negativo maturato nel lungo periodo e frutto della subalternità e della inadeguatezza dimostrate nell’affrontare il grande cambiamento avvenuto a cavallo tra i due secoli. Un percorso a tappe che ha visto la sinistra teorizzare la dissoluzione di ogni forma organizzata e partecipata di comunità politica, la dismissione della battaglia per la difesa e per l’allargamento dei diritti sociali, l’assunzione in termini acritici e ottimistici della globalizzazione, l’abbandono delle parole d’ordine della pace (quanto mai urgenti di fronte a tragedie come quella siriana) e della discussione sulla proiezione del Paese e dell’Europa nella scena internazionale. Scelte che hanno prodotto un’estrema fragilità politica e, in conclusione, una radicale sconfitta sul piano dell’egemonia culturale. In questo clima, si è sottovalutato il significato della rivincita neoliberista e la conseguente la crisi delle agenzie politico-istituzionali — nazionali e sovranazionali — deputate alla regolazione dei processi economici e finanziari, oltre che alla rinegoziazione e all’aggiornamento di quel compromesso virtuoso tra politica e mercato, economia e diritti che aveva dato vita ai welfare del dopoguerra. Il tema riguarda in maniera particolare la missione, il ruolo e le funzioni dell’Unione Europea, trasformatasi da prospettiva positiva in una vera e propria palla al piede per una sinistra che non ha saputo criticarne i ritardi e le debolezze, rilanciando nel contempo un progetto federalista che andasse ben oltre un’integrazione funzionale ed economica. È stato così che la ricchezza si è andata sempre più concentrando nella mani di una ristretta e assai facoltosa élite, vaporizzando i ceti medi, dissolvendo le reti di protezione che includevano e garantivano i processi di mobilità sociale, negando sicurezze per il futuro, svuotando dall’interno l’idea stessa che la politica e le istituzioni rappresentative potessero efficacemente contrastare la povertà e le ingiustizie sociali. I poveri sono diventati sempre più poveri, i deboli sempre più deboli, i marginali sempre più esclusi, in una dinamica in cui il mercato, da strumento per l’allocazione ottimale delle risorse, si è trasformato in una vera e propria teleologia etica, politicamente sregolata e senza argini d’alcun genere. Se non quelli dettati dalle logiche competitive e darwiniste di un mondo privo di valori collettivi e solidali: una distopia fondata sull’individualismo proprietario e i suoi principi predatori. Il socialismo era nato proprio per criticare e contrastare queste derive, avanzando — pur con errori e contraddizioni — una visione alternativa della società che suscitava una grande speranza di cambiamento dello stato di cose presenti. Uno scarto che sfidava e contraddiceva il senso comune, evocando la fine della preistoria umana, ma non rinunciando mai a fare politica, a battersi per i diritti e ad organizzare forze altrimenti subalterne nella società e nelle istituzioni. Oggi la sinistra sembra abbia perso perfino il vocabolario per descrivere e nominare quell’impegno, quelle contraddizioni, quelle sofferenze, quei conflitti, lasciandone talvolta l’onere e l’onore a un Pontefice. Occorre ripartire da quel fondamento identitario, criticandolo e innovandolo alla luce delle sfide dell’oggi, ma riscoprendo il significato profondo di una scelta di campo: per cosa lottiamo, chi vogliamo rappresentare e, in fin dei conti, da che parte stiamo. Perché, ora come allora, chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. Perché, sempre ora come allora, non possiamo fare a meno della grande lezione politica e morale di Enrico Berlinguer che denunciava anzitempo le degenerazioni di partiti ridotti a macchine di potere e di clientela. Parole che dovrebbero risuonare tanto più forte oggi, di fronte a una crisi economica e sociale che reclama una rinnovata credibilità della politica, dei partiti, della democrazia. Allo stesso tempo, la consapevolezza del carattere strutturale della nostra sconfitta non può essere agitata come un alibi o un evento deresponsabilizzante. L’onda d’urto del 4 marzo non poteva essere contenuta e capovolta, ma molti degli errori commessi erano tutt’altro che ineluttabili e hanno largamente contribuito ad amplificare il risultato negativo. Vale per il Partito democratico, avvitatosi in un’estrema personalizzazione della propria identità politica, che ha confuso le categorie della modernizzazione con quelle della precarizzazione del lavoro, dei saperi, dei tempi di vita e del futuro. Vale per Liberi e Uguali che non è riuscito a superare le secche dell’ennesimo cartello elettorale, incapace di definire un progetto chiaro e credibile, né a esprimere una leadership in grado di rappresentare un valore aggiunto e coagulante tra le diverse identità che confluivano insieme. Limiti ed errori molto gravi, enfatizzati dalle logiche inevitabilmente emergenziali con le quali sono state definite liste, punti di direzione, elementi programmatici. Logiche che alla fine, pur facendo salve alcune debite eccezioni, si sono tradotte nell’autotutela di una ristretta élite calata dall’alto che finiva con l’apparire più preoccupata del proprio destino personale che del rilancio della sinistra italiana. Il tema che intendiamo sollevare è tutto politico e non tollera scorciatoie; soprattutto, non ha nulla a che vedere, è bene rimarcarlo, con ridicole accezioni di carattere generazionale. Il rinnovamento si fa sulle idee, sulla capacità di analisi, di lavoro e di rappresentanza, non sull’anagrafe o l’attitudine alle semplificazioni retoriche. Scontata l’urgenza dell’ora pre-elettorale che poteva, in qualche modo, giustificare ogni cosa, è davvero incomprensibile come gli stessi meccanismi oligarchici si stiano reiterando e riproducendo all’indomani del voto. Il gruppo dirigente nazionale fa tutto tranne che dirigere, negando nei fatti la propria ragione d’esistenza in vita. È assente, arroccato nella sua autoreferenzialità, mentre dovrebbe agire tempestivamente per valorizzare e includere le energie comunque suscitate nel corso della campagna elettorale: centinaia di candidati e candidate, migliaia di volontari e volontarie che si sono battuti senza risorse materiali, né alcuna chiara indicazione politica, in grande solitudine, con enorme e inaspettata generosità. Nel frattempo, non una riunione per valutare quanto accaduto nelle urne, non un appuntamento per decidere in termini compiuti del destino di Liberi e Uguali, non una consultazione sulle modalità di partecipazione alla discussione sulla formazione del nuovo governo. Un’autosufficienza che denuncia la volontà di riassumere nei gruppi parlamentari, e poco altro, tutti i livelli di direzione politica nazionale e territoriale. Siamo cioè al cospetto di una logica notabiliare già tristemente sperimentata nella sinistra più moderata sia in quella più radicale, con la politica ridotta a logica di appartenenza feudale, la distruzione degli strumenti collettivi di partecipazione e di mobilitazione, il consolidamento di comitati elettorali e di ristretti gruppi di pressione. È questo il nostro destino? Attendere la convocazione dell’assemblea nazionale di Liberi e Uguali per assistere a una finzione democratica, invitati a fare la parte del coro unanime in una rappresentazione già istruita e consumata? Pensiamo francamente di no. È nostro dovere, invece, a partire dalla Campania e dal Mezzogiorno, reclamare che, con coraggio e generosità, si capovolga la cinghia di trasmissione dall’alto vero il basso, abbandonando ogni logica pattizia e ogni rendita di posizione individuale. Tutto è in gioco, ma per affrontare la sfida dobbiamo provare a ripartire dai luoghi e dalle questioni di maggior sofferenza, infondendo la speranza di una tangibile trasformazione della società: le periferie, i giovani, un Sud da troppo tempo abbandonato a se stesso, uno stato sociale ridotto in macerie, una scuola sempre più dequalificata, un lavoro negato e precario, che spesso rasenta lo sfruttamento. È qui che la sinistra deve riarticolarsi e ricostruire una presenza, un radicamento che torni ai fondamenti della propria cultura, ai valori non negoziabili di un socialismo che, come si è accennato, va rinnovato e affrontato criticamente, nella consapevolezza, tuttavia, che quella è l’unica battaglia che valga la pena di essere combattuta. Per questo è necessario che si apra immediatamente un processo costituente, nel quale uno valga davvero uno e il confronto delle idee si faccia risoluto e serrato, senza perseguire fasulle unanimità di facciata. Per costruire un partito del lavoro che guardi al Mezzogiorno come a una grande questione nazionale, all’Europa come a un riferimento progressivo e solidale di un nuovo equilibrio mondiale, al Mediterraneo come a una straordinaria opportunità di crescita e comunicazione tra le culture e le civiltà. Non ce la caviamo difendendo l’esistente e i piccoli interessi, peraltro anch’essi seriamente compromessi dall’esito elettorale. Anzi, se è vero che il voto ha fatto emergere dinamiche nuove e per molti versi negative, saremmo miopi se non cogliessimo quell’ansia di liberazione espressasi nelle urne: una ribellione del voto che ha radici profonde (s’illude chi immagina rapidi riflussi in proprio favore) e che reclama cambiamenti, partecipazione, nuovi linguaggi, nuovi strumenti di battaglia politica e sociale. La sinistra ha bisogno di affrontare il mare aperto con tutte le sue vele, con tutti suoi uomini e le sue donne impegnate nella ricerca e nella navigazione. Di capi carismatici e di programmi provvidenziali, se anche ne avessimo, non sapremmo che farcene”.