O SEI MIA O NON SEI DI NESSUNO…

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di Alfredo Grado*

Ha aspettato la moglie sotto casa per spararle e ridurla in fin di vita, poi ha preso le chiavi dell’appartamento dalla sua borsa e ha ucciso le figlie, di 8 e 14 anni, mentre dormivano nei loro letti. Dopo nove ore di trattativa, barricato in casa con i cadaveri delle figlie Luigi Capasso, un carabiniere 43nne di Cisterna di Latina, si è ucciso con la pistola di ordinanza.

Dietro fatti come questi, che oramai sembrano capitare sempre più spesso, c’è sempre un disagio, una seria difficoltà nell’affrontare la quotidianità, che poi sono i problemi che la vita ci mette davanti. Qualcuno li definisce, impropriamente, suicidi allargati. Perché il suicidio un tempo non aveva legittimità sociale, non era riconosciuto e accettato socialmente, mentre oggi stanno cadendo le barriere psicologiche, una sorta di anestetizzazione che induce ad una maggiore accettazione che, a sua volta, spinge tanti a commettere il cosiddetto gesto di follia.

Al di là dei dati che restituisce la cronaca o le conclusioni degli organi inquirenti, queste tragedie trovano le motivazioni scatenanti all’interno della famiglia o, comunque, all’interno di gruppi familiari, di parenti. È un omicidio-suicidio la strage di quattro persone, tutti componenti lo stesso nucleo familiare, avvenuta in una villetta di Rende, nel cosentino, lo scorso febbraio.  A Ferrara, la scorsa estate, un uomo di 77 anni, di prima mattina, in casa, ha sparato alla moglie e al figlio di 48 anni, uccidendoli. E ancora. Ad ottobre, la cronaca comasca ha riportato un incendio in un appartamento dal bilancio drammatico, con un padre morto insieme ai suoi quattro figli. Una tragedia che, con il passare delle ore, ha assunto dei connotati ancor più sconvolgenti quando è emerso che le fiamme, dolose, sarebbero state appiccate dallo stesso genitore, disperato per la situazione famigliare. Un uomo «dignitoso e premuroso» che ha perso il controllo ed è diventato il carnefice dei piccoli che voleva proteggere e che forse «temeva di perdere» per via delle sue drammatiche condizioni economiche.

Alcune volte, e su questo esiste una vasta letteratura criminologica, gli omicidi che si concludono con il suicidio dell’assassino hanno alle spalle un delirio, un disturbo non affrontato. Ci sono stati casi in cui padri di famiglia che pensavano d’essere finiti, con la paura di non avere neppure i soldi per mangiare, e che non volevano condannare a una vita infelice figli e moglie, si sono spinti al gesto estremo condannando tutti a morte. Ma alla base di fatti di sangue così drammatici e devastanti, ci sono anche motivi passionali. Che sono quelli apparentemente più facili da capire, ma anche più difficili da intuire. Perché alla fine la follia omicida può scattare all’improvviso, senza segnali premonitori.

Questo tipo di omicidio-suicidio è prettamente maschile, è un uomo che uccide e poi si uccide.

Nel momento in cui si pensa di farla finita si toglie la vita a una persona cara, perché non la si vuole lasciare sola, perché altrimenti starebbe male. E questo capita quando all’omicidio non segue subito il suicidio, perché chi ha ucciso ha il tempo di prendere coscienza di quanto ha fatto, ha uno scossone, si rende conto della gravità e si blocca. Soprattutto se è spinto da un disagio, se è stato lasciato e vive un delirio frutto di una psicopatologia dettata dalla famosa logica: o è mia/mio o non è più di nessuno.

Probabilmente la molla che fa scattare le tragedie ha motivazioni passionali, paure, malattie o chissà ancora cosa. Il fatto è che ogni storia presenta una particolarità e, pertanto, è unica, poiché ruota attorno alla personalità del protagonista che lo ha innescato. Certo, la famiglia alcune volte diventa una pentola a pressione pronta ad esplodere, ma possono esserci anche altri motivi scatenanti, spesso esterni, come ad esempio gli imprenditori schiacciati dalle difficoltà economiche. Resta il fatto che quando si parla di un epilogo preceduto da violenze subdole, reiterate e, sotto alcuni punti di vista, annunciate, la domanda sorge sempre spontanea: noi dove eravamo?

*Docente di Sociologia del Diritto – Criminologo

4 Commenti

  1. A mio avviso questo articolo esprime al massimo il senso di insicurezza del nostro tempo. Non più l’alterità divina, non più la natura ”matrigna” sono gli agenti o le cause del ”male”, bensì l’uomo stesso.
    La consapevolezza dell’insensatezza e imprevedibilità del male fa sprofondare l’esistenza degli uomini in una costante condizione di potenziale rischio, oltre che di angoscia.
    Mi chiedo se ci sia un modo per cambiare rotta.

    In ogni caso la ringrazio per i suoi articoli che mi conducono sempre a riflessioni e nuovi interrogativi.

    • Cara Amica,
      nel ringraziarla per aver riposto cotanta attenzione all’articolo proposto, aggiungerei che uno degli obiettivi delle analisi non è solo informare ma, soprattutto, indurre alla riflessione. Cosa sarebbero le sue conclusioni se non un esercizio di meditazione sulle cose? Tuttavia, va sempre distinto l’esercizio creativo dal lavoro filosofico del riflettere.

  2. Quando gli uomini perdono la persona che considerano l’oggetto del proprio dominio iniziano a perseguitarla, a renderle la vita impossibile fino all’estremo gesto!! Noi dove eravamo?? Condivido pienamente quanto da lei detto e credo che sia arrivato il momento di una riflessione forte su questo fenomeno sempre più dilagante al fine di creare una task force per evitare tali epiloghi e riuscire ad aiutare tali soggetti all’accettazione della realtà!!!

    • Gentile lettrice,
      ha colto nel segno. Malgrado i diversi tentativi di arginare certi fenomeni abbiamo fallito. Pur se impossibile prevenire, va tuttavia immaginato un cambio di rotta che parta dalla cultura, ma non solo. Condivido il Suo pensiero

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