Riuscire a realizzare un film con due soli protagonisti è un’impresa da pochi.
L’abilità sta nel riuscire a mantenere lo spettatore attento e affascinato dall’opera per tutta la sua durata, ma anche nel sapere attribuire a due soli personaggi diversi caratteri, modi di essere e stati d’animo. La realizzazione di una pellicola del genere, quindi, è una sorta di catena di montaggio in cui ogni elemento svolge il suo ruolo fondamentale e competente solo a se stesso.
La realizzazione di un film a due ruoli richiede anche e soprattutto un particolare coraggio nel sapere ridurre tutto al minimo eliminando quasi totalmente le colonne sonore, utilizzando un’ambientazione essenziale, sottraendo progressivamente i colori, fino quasi a farli scomparire, a farli diventare bianco e nero, in modo da far risaltare solo i due ruoli emblematici. In questo caso, quindi, l’attore interpreta contemporaneamente il suo personaggio, le sue molteplici sfaccettature, e anche altri aspetti che il regista ha deciso di mostrare concentrandoli solo nella sua persona.
La potenza del cinema fa sì che lo spettatore possa immergersi nella storia e avvertire emozioni talvolta contrastanti anche con una solo inquadratura : uno sguardo, un movimento, un dettaglio possono suscitare sensazioni totalmente differenti e personali, possono catturare l’attenzione in maniera anche inaspettata. Per questo, tornando a quanto abbiamo detto, sapere focalizzare tutto questo in due unici soggetti diventa un lavoro che richiede particolare ingegno.
“Una giornata particolare” (1977), di Ettore Scola
“Il cinema è dubitativo, non affermativo. Un film non deve dare soluzioni. Però porre interrogativi, sottolineare certi dubbi, avvertire domande che sono nell’aria e riproporle. Credo sia questo uno dei compiti del cinema. Ma non solo del cinema, di ogni altra forma d’arte” : questo è il senso del cinema di Ettore Scola, un regista difficile da collocare in un particolare genere. Sicuramente, tra gli autori indiscussi e tra i grandi della commedia all’italiana. Ma è comunque un giudizio riduttivo. Ettore Scola, a parte la voglia di raccontare delle storie e di far conoscere dei personaggi, ha una specifica inclinazione per la rappresentazione del reale. Più che l’immaginazione e il sogno, ciò che lo contraddistingue è il gusto per la realtà.
In questo caso, la realtà in questione è il 1938, precisamente il 6 maggio : Hitler è in visita a Roma. Subito dopo i titoli di testa, gli spezzoni dei cinegiornali dell’Istituto Luce ci mostrano le immagini di quel memorabile giorno. Fervono i preparativi della trionfale accoglienza, gente d’ogni quartiere affluisce ai Fori Imperiali, mentre la radio si appresta a celebrare il fatidico avvenimento. Anche la radio, oltre ad avere come scopo l’intrattenimento e l’informazione, funge da strumento di guerra, in quanto offre un’opportunità propagandistica che un regime totalitario non poteva lasciarsi scappare. Moglie e madre modello, Antonietta (Sophia Loren) mette in ordine le divise del marito e dei sei figli, prossimi ad unirsi alla sfilata. Lei rimane a casa, intenta alle faccende domestiche. Ma nonostante non partecipi all’evento, anche per lei quel giorno si trasforma in una “giornata particolare” : per un caso fortuito conosce Gabriele (Marcello Mastroianni), annunciatore dell’Eiar (trasmissione radiofonica fascista), fresco di licenziamento. Sarà un’occasione del tutto casuale a portare Antonietta a bussare alla porta del suo dirimpettaio. Dopo questo primo incontro ne seguiranno altri, in cui Antonietta ha modo di apprezzare i modi eleganti e la cortesia che mostra quell’uomo, agli antipodi rispetto all’atteggiamento volgare e rozzo del marito. Nel corso della conversazione, la donna ha anche modo di esprimere tutta la sua ammirazione nei confronti del Duce, mentre Gabriele non nasconde invece critiche e perplessità. Fra queste due anime ai margini del regime si instaura una dolce e profonda complicità, che getta un raggio di luce sulle loro esistenze.
Siamo nell’epoca della totale intolleranza. Due individui umiliati e offesi cercano di riprendere coscienza della propria individualità, totalmente repressa e schiacciata. È la storia che annienta l’individuo. Una storia crudele, che precede lo scoppio della seconda guerra mondiale, che non è più soltanto un conflitto fra forze armate, ma una guerra totale, ideologica, il racconto di una follia umana. Collocare nel 1938 questa storia di solitudine e amicizia, di emarginazione e solidarietà, amplifica la portata della vicenda. Emerge il continuo contrasto tra il vissuto e la storia, tra i sentimenti e le convenzioni, tra le ragioni dell’individuo e quelle della politica. L’incontro tra due diverse solitudini ha cambiato le persone, ma non ha cambiato la storia. Nonostante questo, la trasgressione c’è stata, almeno nella memoria di chi l’ha vissuta. L’esperimento temerario di due interpreti chiamati a ribaltare gli stereotipi a cui devono gran parte della loro popolarità riesce perfettamente, si evince dagli sguardi, dai gesti e dai particolari, quanto le loro personalità interagiscono precisamente insieme.
“Una giornata particolare” si dimostra efficace e coraggioso nel voler demolire gli aspetti più aberranti della dittatura, che investe e persuade, attraverso il mito del Duce, ogni aspetto dell’individuo. Non sono solo due personaggi emblematici -Antonietta è la donna tipica del regime, relegata a un ruolo inesistente nella società, Gabriele è la voglia di evadere, di esprimere dignitosamente la propria essenza- ma sono anche la rappresentazione drammatica e esaustiva di una pagina della nostra storia.
È un dover rendere omaggio e ricordare un film del genere, soprattutto per noi italiani. Oltre ad essere un atto di ribellione e di denuncia, è una pellicola ancora attuale, per quanto oggi non ci sia la dittatura fascista, ma la presenza di altri tipi di dittature diverse, ma non per questo meno dannose e pervasive.
È senza dubbio un film intenso e significativo che dopo quarant’anni non perde il suo valore. È una storia (o meglio l’intreccio di due storie, quella storica e politica, e quella sentimentale all’epoca ancora più complessa), che non può non restare impressa, è una realtà che non lascia indifferenti, è un prezioso documento storico testimonianza di un’epoca.
“Venere in pelliccia” (2013), di Roman Polański
Da un film che è allo stesso tempo un documento storico e un incontro struggente tra due solitudini, passiamo a “Venere in pelliccia”, capolavoro di Roman Polański.
“Io non voglio che lo spettatore pensi in questo modo o in quell’altro, voglio solo che non sia sicuro di niente. È questa la cosa più importante : l’incertezza”, dice Polański. Quello che avviene durante la visione delle sue opere è qualcosa che crea sempre stupore : è un’esperienza piuttosto che un film.
Ispirato all’omonimo romanzo di Leopold von Sacher-Masoch, “Venere in pelliccia” è ambientato in un teatro parigino dove Vanda si presenta al provino per il ruolo principale in una piéce teatrale, cioè un adattamento della “Venere in pelliccia” del romanzo sopra citato. Dopo numerosi tentativi di trovare la perfetta protagonista, il regista/adattore dell’opera (Thomas) è rimasto solo nel teatro, ormai rassegnato e non disposto a concedere altri provini. Ma Vanda (non a caso nome della protagonista del romanzo), con la sua insistenza riesce a fare l’audizione che si protrarrà più del previsto. Tra Thomas e Vanda si crea una sottile complicità, che li porta a confondersi tra le loro identità e lo spirito dello stesso von Sacher-Masoch e della sua Venere.
La pellicola di Polański è un’opera complessa, affascinante e potente. I ruoli si ribaltano, cresce la tensione del duello erotico, una sorta di guerra tra sessi. C’è una sensazione di smarrimento e ambiguità, una linea invisibile tra realtà e finzione, tutte le certezze crollano e lasciano spazio a varie, personali e pertanto giuste interpretazioni. Polański ha la capacità di non far provare un senso di claustrofobia o limitazione in un film con due soli attori e un unico ambiente.
È un astuto gioco di rimandi, quello che il regista si diverte ad assecondare. Dall’ironia si passa alla tragedia, con la straordinaria abilità tipica di Polański.
Il campo di battaglia per la guerra dei sessi è atipico : un teatro. Questo aspetto attribuisce una particolarità e una raffinatezza a tutta l’opera, che al tempo stesso intriga e inquieta. Il regista non lascia trapelare la sua reale concezione dell’amore, ma pone, con l’espediente dei fraintendimenti, alcuni interrogativi: l’amore è subordinazione? Il maschilismo è presente nel rapporto tra uomo e donna? Stiamo assistendo realmente ad una audizione o c’è altro?
Sicuramente c’è tanto altro in questo film da vedere e rivedere per coglierne l’essenza. I vari spunti di riflessioni vengono colti e sviluppati in modo differente da ogni spettatore. Non c’è una lettura univoca, ma forse non è necessario che ci sia. È anche questo il bello del cinema : affidarsi senza mezze misure, rischiando di non comprendere il senso generale, perdendosi in eterni e incomprensibili particolari. È uno stile che seduce e allontana. Bisogna solo lasciarsi andare e far uscire fuori ogni possibile sensazione nascosta o sconosciuta.
Polański aveva già mostrato precedentemente la sua predilezione per il cinema minimale : “Il coltello nell’acqua” del 1962 ha tre attori, “Carnage” del 2011 ne ha quattro. “Venere in pelliccia” dunque è un’ulteriore sfida a ridurre tutto all’essenziale. Thomas e Vanda sono due personaggi che racchiudono in sé un insieme infinito di significati e contenuti. La confusione che Polański riesce a suscitare cattura, rapisce e lascia lo spettatore piacevolmente disorientato.
Possiamo dire, concludendo, che gli stili di questi due registi sono del tutto distanti fra loro, ma la capacità di entrambi di realizzare un film intriso di significato li avvicina. Con Scola assistiamo alla sofferenza, alla voglia di riscatto, al desiderio di esprimere la propria identità; con Polański invece vediamo la forza, la passione ma anche la violenza e il masochismo. Due esempi di un modo di fare cinema efficace e diretto, senza filtri.